
‘Shadow’, l’orrore delle armi
Buona prova del nove per Zampaglione alla seconda regia, con occhiolino ai maestri del genere
di Stefano Gallone
Si parla e straparla dell’importanza di favorire, in un modo o nell’altro, con soldi veri o pacche sulle spalle, i giovani artisti in erba e in perenne ricerca di un pubblico da soddisfare o al quale sottoporre, comunque, un proprio lavoro, provando a capire, almeno, se si posseggono gli attrezzi del mestiere o se, per contro, è il caso di lasciare campo ad altri (ma chi?). Nell’ambito della settima arte, in particolare, è estremamente difficile, se non impossibile, nell’abisso carnivoro del più sconcertante contesto socio-politico attuale, azzardare il coraggioso tentativo non solo di depositare una sceneggiatura e tirar fuori, praticamente di tasca propria, un bel gruzzoletto di soldini per farne realtà in cellulosa, ma anche e soprattutto di svoltare radicalmente una volta ingiustamente etichettati quasi come incapaci e presuntuosi.
Federico Zampaglione, noto leader della band italiana Tiromancino, emergente lo è solo nel contesto cinematografico (bisognerebbe un attimo valutare anche la sua popolarità come incentivo all’apertura delle porte verso il grande schermo) ma il coraggio, prima di esporsi, poi di voltare completamente pagina, l’ha avuto eccome. Merito suo e dell’impavido produttore capitolino Massimo Ferrero. Ma, più di tutto, merito di quella passione e di quell’amore folle per qualcosa alla quale si sente di appartenere e per la quale si lotta fino all’ultimo e sentito schiaffo morale. Reduce da una pseudo-commedia quasi all’italiana, il precedente “Nero bifamiliare”, Zampaglione spiazza sia una gran bella fetta di critica (che gli aveva stroncato senza mezzi termini anche il solo mezzo accenno di passo verso l’approccio alla cinepresa per lungometraggi, nonostante la sua esperienza alla direzione di molti degli ultimi videoclip della sua band) che notevoli gruppi di spettatori raccolti tra fan personali e (bersaglio più che difficile da centrare) appassionati di quella che, probabilmente, è la vera sponda “horror”, ovvero la cascina sperimentale, spesso ingiustamente accostata al gruppo “b-movie”, degli anni ’70 di Argento e Bava (proprio un Roy Bava, forse non a caso, compare come aiuto regista nei titoli di testa). Abbiamo faticato non poco per trovare una delle scarse sale che (addirittura) nella capitale si sono degnate di ospitare questo film, la cui uscita è stata più e più volte rinviata; ma alla fine, incuriositi, ce l’abbiamo fatta e, di certo, non rimpiamgiamo il prezzo del biglietto.
Il soldato statunitense David (Jake Muxworthy), di fresco ritorno dalla guerra in Iraq e detentore di forti traumi legati al conflitto, esprime, per evadere, il desiderio di scalare le montagne e i boschi del centro Europa forte della sua mountain bike. Diretto a “Shadow”, un posto indicatogli da un amico, in un bar-baita difende istintivamente Angeline (Karina Testa) dalle manie psicolabili dei cacciatori Fred (Ottaviano Blitch) e Buck (Chris Coppola). David e Angeline, dunque, fanno conoscenza e si piacciono quasi da subito. La ragazza nota di essere diretta nello stesso posto del giovane, ma mette in guardia il compagno sulla presunta pericolosità spiritica di una particolare altitudine della montagna, teatro di sterminio di donne e bambini, in tempi di guerra, senza alcun accenno di pietà. Ma i due cacciatori non hanno digerito la spavalderia del ragazzo nel difendere Angeline: parte, così, una vera e propria caccia all’uomo dei due nei confronti dei ragazzi, fino a quando le bussole impazziscono e tutti si ritrovano dispersi nel bel mezzo del punto più oscuro e nebbioso del bosco che, da gentile e poetico, si trasforma, in un batter d’occhio, nell’incubo più terrificante. Artefice dell’orrore, una strana ed anomala presenza (un eccellente Nuot Arquint) che rapisce i quattro e li rinchiude nel suo nido di sangue per farne cavie di veri e propri esperimenti carnefici.
Sulla base della buona sceneggiatura (seppur debole in alcuni frangenti verbali) dello stesso Zampaglione, con la collaborazione del padre Domenico e di Giacomo Gensini, la pellicola, ottimo elemento di resurrezione per un genere creduto morto, risulta girata con saggia padronanza del mezzo: azione con nevrotica macchina a mano, sorpresa, suspense, sangue e orrore mai mostrato in maniera gratuita se non in momenti portanti ma pur sempre in linea conforme al simbolismo edificato da un finale più o meno freudianamente confortante seppur, di certo, consono all’attribuzione di un senso compiuto a quanto inizialmente appare come qualcosa di lanciato in aria al grido liberatorio del voler sottrarre il genere alle catene da produzione industriale. Con un estro che lancia seriose occhiate ai maestri del genere, per una retroattività superiore ai trent’anni di fotogrammi, il rocker romano non manca in invenzioni artistiche degne di seria considerazione: preferire, al mostrare semplicemente un cane fermo in un bosco una volta avvertito un pericolo, una sua soggettiva sia visiva (spossata) che sonora (con tanto di simulazione di ultrasuoni frastornati da una chissà quale presenza, sfiorando quasi un certo espressionismo) non è cosa da poco. Sviluppare un intero film secondo scelte visive giustificate come metaforiche e funzionali da un finale estremamente legato ad una sostanziosa critica attuale, è quantomeno sentito, sincero e votato alla causa (chissà fin dove persa) del mettere in guardia uno spicchio di senso di appartenenza all’essere umano.
Già premio Nuove Visioni, assegnato dalla rivista di genere “Nocturno“, presso il festival “Scient+Fiction” di Trieste e in rapida distribuzione in paesi come Germania, Austria e Stati Uniti, dove è stato accolto quasi con ovazione. Tutto ciò avrà pure un motivo.