
Sanremo 2012, Adriano Celentano e il teatro del pressappochismo
Confesso: ieri sera non ho visto Sanremo. A vedere, sentir parlare e leggerne il day-after, è un po’ come essere scampati ad un 11 settembre televisivo. Con la differenza che, al sollievo dello scampato pericolo, è subentrata ben presto la morbosità voyeuristica. E quindi youtube ha fatto il suo sporco (ma fondamentale) ruolo.
La bocciatura della Ecclestone e l’infortunio della Mrazova mi sono sembrati due chiari segnali premonitori per quanto concerne l’aspetto ornamentale della kermesse: se serve carne da macello da mettere sul palco per fare alzare lo share (chiamiamolo così, via) ce n’è tanta anche in Italia. Almeno non prendiamola di importazione che ci costa di più.
Le critiche di Vasco Rossi all’esclusione del pezzo che aveva scritto per Patty Pravo (o forse per Fiorella Mannoia, il Blasco non se lo ricorda o magari ha cambiato idea) e che in realtà la stessa Patty Pravo non ha voluto portare a Sanremo, hanno reso un po’ meglio l’idea di cosa sia il palco dell’Ariston durante la settimana del Festival (?) della Canzone Italiana (???): una gigantesca Isola dei Fumosi, in cui si fa a gara a chi la combina più grossa e spalma il proprio nome su più metri quadri di carta stampata o web.
Una gara che la Rai avrebbe potuto vincere a mani basse (il blackout che ha impedito ai non-tanto-smartphone dei giurati di esprimere i propri voti – oltre che passare alla storia – andrebbe indicizzato alla voce “segno divino”, sommato alle spettacolari litigate a più riprese dei fonici con i microfoni), ma da buona padrona di casa ha preferito lasciare che lo scettro finisse nelle mani del superospite, definizione che rende già per sé l’idea di come uno show di cinque giorni debba aggrapparsi alle braghe di qualcun altro pur di restare a galla. Sua immensità (Rocco Papaleo docet, ma secondo me sotto sotto lo prendeva per i fondelli) Adriano Celentano.
“Adriano c’è”, hanno recitato gli spot Rai. Sì vabbé, ma il Festival? Dai su, siate realisti. Comunque Adriano arriva sul palco (dopo un’ora e mezza di show e ben 3 canzoni), bombardando Sanremo in stile Apocalypse Now e facendo sperare che all’improvviso salti fuori il colonnello Kurtz a fare a pezzi le prime file della sala. Il monologo del Molleggiato si potrebbe riassumere in due frasi: un calzantemente populistico “Torna a cantare che è meglio” di mio pugno ed un inquietante ma veritiero «Non mi preoccupa Adriano, mi preoccupano piuttosto quelli che sono disposti a prenderlo sul serio» firmato da quel “deficiente” di Aldo Grasso (Celentano dixit). Che, per inciso, non piace più di tanto né a me e nemmeno a molti miei amici che con lui hanno fatto master o stage (nessuno stipendio in ballo dottor Monti, per carità. Ai giovani giornalisti l’idea del posto fisso fa ribrezzo), ma la cui opinione mai come stavolta è condivisibile.
Tornando a noi, anzi a lui, l’impressione dopo lo sbarco del Molleggiato sul pianeta Sanremo 2012 è una ed una sola: Celentano deve cantare. Punto. Come Herbert Ballerina deve fare l’usciere e Fabio Volo il panettiere. Vedere ciondolare l’Adriano nazionale sul palco a ritmo di musica dà l’impressione che il tempo per il Celentano-cantante si sia magicamente congelato ai tempi in cui riempiva gli stadi italiani con la stessa facilità con cui i mostri del rock l’avrebbero fatto 30 anni dopo. E la voce roca e tagliente ce l’ha ancora, che Dio l’abbia in gloria. La carica innovativa del Celentano-oratore, invece, s’è spenta ai tempi del tormentone “è rock è lento” di Rockpolitik, in cui tutto era costruito e cucito a sua immagine e somiglianza, sui suoi tempi biblici, sulla sua retorica basilare e sul pubblico che coscientemente si riuniva ai piedi dello speaker’s corner televisivo del Clan.
Logoro discorso sul cachet a parte (la Rai spenda come preferisce i soldi dei contribuenti, i pochi che ancora lo fanno, me compreso, tra un po’ inizieranno a “dimenticare” di pagare il canone) Celentano non ha fatto altro che usare il palco più conosciuto dagli italiani per togliersi un po’ di sassolini dalle proprie scarpe e recitare lo stantio mantra delle banalità che potremmo ascoltare con migliore dovizia di particolari (e forse con esposizione più infervorata ed appassionante) anche nell’ultimo dei vecchi Bar Sport.
Avvenire e Famiglia Cristiana criticano il compenso di Celentano? La prima stilettata è per loro, che dovrebbero chiudere perché «non parlano di Dio e del paradiso, ma si occupano di politica. Ed i cattolici vogliono sentir parlare di Dio ed avere una speranza, soprattutto i malati terminali». Quattro applausi (pagati, mi auguro) sul dittatoriale appello alla chiusura di due testate – che basta non comprare per far chiudere – e gelo in sala sul riferimento strappalacrime ai malati terminali. Aldo Grasso lo critica per il tempismo con cui riappare su tv e giornali in concomitanza con le uscite dei suoi album musicali? No problem, tanto è un «deficiente».
L’applauso più fragoroso lo strappa Rocco Papaleo (bontà sua, una bomba di espressività minimalista il cui sguardo trasuda ogni secondo uno straziante “ma dove cavolo sono finito?”) con quell’evergreen televisivo che è la lettura dell’articolo 1 della Costituzione. La comparsata della Canalis a piedi nudi che recita il ruolo dell’Italia la cui bellezza “sta sfiorendo” fa capire il motivo per cui Clooney l’ha lasciata: gli ectoplasmi vanno bene in Ghostbusters, non per viverci assieme. Il siparietto con Pupo e Morandi ha l’odore gommoso della cera delle sale del Madame Tussauds, con l’aggravante di essere l’esatto opposto di un capolavoro. Imbalsamato, patetico, inespressivo. L’arringa sul referendum per la legge elettorale “bocciato” dalla Consulta è il ruggito dell’ignorante, che reclama i diritti vilipesi dei cittadini, ma che invece avrebbe dovuto prendere i suoi populistici colleghi, promotori di quel referendum, e mandarli a scuola di diritto, prima di proporre una consultazione che nessun organismo al mondo avrebbe mai accettato per la sua inapplicabilità giuridica.
Un affettuoso ricordo di Santoro messo in bocca a Morandi (che trema spontaneamente quando ricorda «L’ho detto io, ma l’ha scritto lui») ed un refrain sul tanto caro tema delle armi: la Merkel e Sarkozy propongono alla Grecia l’acquisto delle loro produzioni belliche, altrimenti niente aiuti. Poi musica, maestro. Due anni di eurocrisi liquidati in 50 secondi netti. A saperlo lo votavamo al parlamento europeo. Applauso non squillante, standing ovation quasi forzata (750mila euro e non vi alzate neanche in piedi ad applaudirlo? Come minimo la Rai avrà elettrificato le poltroncine nella platea dell’Ariston), luci in sala.
Sanremo può essere davvero questo? Ridursi ad attendere un’accozzaglia di anatemi populisti, una pietra lanciata nello stagno catodico in attesa che altri provvedano a discutere sulla concentricità dei cerchi prodotti? Adriano Celentano ieri sera è stato un giudice che ha guardato in faccia l’imputato, gli ha detto “Tu vai in cella perché mi stai antipatico”, ha battuto il martelletto, s’è sfilato la tonaca ed appena uscito dal tribunale si è fiondato in una decappottabile per tornarsene in Costa Smeralda. No Adriano, non si fa così. No Mamma Rai, noi ci togliamo dal tuo stato di famiglia.
Non bisogna avere paura di affrontare le cose. Sanremo è musica, ha segnato la storia della nostra nazione. Da almeno 20 anni a questa parte la musica che nasce, cresce e vive oggi in Italia è lontana anni luce dai cliché confezionati ad hoc che la kermesse ligure ci propone in poltrona ed abito da sera. Se non si riesce a rappresentare la musica italiana senza un briciolo di dignità e veridicità, è ora di riconoscere che Sanremo è accanimento terapeutico e non bisogna fare altro che staccare la spina. Né si può affidare il termometro del Paese ad Adriano Celentano, ignorante dichiarato e conclamato nell’accezione conoscitiva e non culturale del termine. Si pecca di pressappochismo. E di pressappochisti ne abbiamo già piene le Camere, le istituzioni, le televisioni. E anche qualcos’altro.
Francesco Guarino