
Sabra e Shatila, il massacro vissuto dai carnefici
Come fiocchi di neve, i razzi al fosforo bianco scendevano lentamente dal cielo illuminando la notte dei campi profughi palestinesi di Sabra e Shatila, diffondendo luce sulle rovine diroccate di quel che rimaneva di Beirut Ovest. In quella stessa notte, il soldato israeliano Ari Foldam si trovava insieme alla sua unità sopra il tetto di un edificio a meno di trecento metri dai campi.
Gli ordini ricevuti via radio dal comando di compagnia erano quelli di lanciare razzi al fosforo bianco per tutta la notte in appoggio ad una operazione di “pulizia” in corso contro elementi terroristici palestinesi appartenenti all’Olp (l’Organizzazione per la liberazione della Palestina guidata dal suo Raìs Yasser Arafat) che, secondo lo Stato Maggiore dell’Esercito israeliano, si trovavano ancora all’interno dei campi di Sabra e Shatila, nella periferia Ovest di Beirut. Il soldato Folman rimase tutta la notte sopra quel tetto a lanciare razzi ed osservare il sinistro spettacolo pirotecnico che gli si prospettava davanti. Nessuno parlava, i soldati come degli automi eseguivano gli ordini e, per tutta la notte, accompagnarono i “fuochi d’artificio” con il solo sinistro stridio metallico dei lanci.
In quel momento non poteva immaginare di essere un testimone del più grave crimine di guerra commesso dal suo Paese e che, indirettamente, vedeva coinvolto anche lui. Sì, perché gli occhi di un ventenne militare di leva non sono abituati a riconosce facilmente un massacro, anche se sei israeliano, anche se sei parte di un popolo che è da sempre abituato ad essere in guerra, anche se la tua famiglia ha affrontato la Shoah, anche se tuo padre ha combattuto la Guerra dei “Sei Giorni” o del “Kippur”. Non è facile riconoscere un crimine di guerra e ciò risulta ancora più difficile quando non si ha una visione d’insieme della situazione che stai vivendo e possiedi solamente informazioni frammentate. Ari non sapeva che all’interno di campi profughi di Sabra e Shatila le milizie falangiste filo-cristiane si stavano vendicando sui civili per l’attentato mortale subito dal loro leader Bashir Gemayel, presidente del Libano, quattro giorni prima.
Infatti, il Paese dei Cedri rappresentava il più complicato modello di coesistenza tra le più importanti fedi religiose della Regione: cristiani, mussulmani ed ebrei. Un bilanciamento tra fedi si realizzava anche all’interno della struttura istituzionale dello Stato. Nel 1975, scoppiava la guerra civile che trascinava il Paese nel caos. Questa situazione aveva permesso ai miliziani dell’Olp di sferrare attacchi di guerriglia contro lo Stato Ebraico dal Sud del Libano. Ma Israele non sarebbe rimasto a guardare e, con un’azione lampo denominata “Pace in Galilea”, sferrò una fulminea offensiva terrestre che portò le truppe israeliane fino alle porte di Beirut ove aveva sede il comando dell’Olp di Yasser Arafat.
Successivamente, gli israeliani trovarano un accordo con l’Olp per lo sgombero degli stessi dalla città di Beirut. Tuttavia, per insistenza di Yasser Arafat, Israele sottoscrisse una clausola dell’accordo con la quale si impegnava a non invadere Beirut Ovest, la zona della capitale libanese ove erano presenti i maggiori insediamenti di profughi palestinesi. A garanzia di ciò, intervenne anche un contingente multinazionale di statunitensi, francesi e italiani al fine di costituire una zona “cuscinetto” tra Esercito israeliano e combattenti dell’Olp in partenza da Beirut. Seppur con qualche scaramuccia, l’Olp liberava la sede di Beirut per trasferirsi a Tunisi. Concluse le operazioni di sgombero, il 10 settembre 1983 gli ultimi uomini del contingente multinazionale lasciavano Beirut e, inconsapevolmente, abbandonavano i palestinesi dei campi al loro destino.
È solo attraverso la coscienza di uomini come Ari Folman che, oggi, possiamo avere una genuina prospettiva del massacro dagli occhi dei carnefici. Anche Dror Harazi, quella notte, si trovava a meno di centocinquanta metri dalla postazione del soldato Ari Foldman. Era giunto in prossimità dei campi di Sabra e Shatila nella mattinata con la propria brigata corazzata. Gli ordini ricevuti dal comando di brigata erano quello di dare copertura armata agli uomini delle milizie crisitiano-libanesi che, da lì a poco, sarebbero entrate nel campo con compiti antiterrorismo. A conclusione dell’operazione di “pulizia”, le forze israeliane avrebbero dovuto prendere il controllo dei campi profughi.
Alle ore 18.00 del 16 settembre del 1982 iniziava l’operazione “antiterrorismo” condotta dalle forze cristiano-libanesi nei campi profughi di Sabra e Shatila, territorio, in quel momento, sotto il controllo militare israeliano. La mattina seguente, i miliziani falangisti iniziarono ad evacuare la popolazione palestinese dai campi. Sotto gli occhi dei militari israeliani, i palestinesi venivano caricati sopra i camion scoperti per una destinazione sconosciuta. I camion partivano pieni e ritornavano vuoti per stipare nuovamente il loro carico umano.
Diversamente da Ari, il capitano Harazi disponeva di un maggior numero di informazioni su quanto stesse accadendo in quel momento davanti a sé. Ciò permise alla sua razionalità umana di prevalere rispetto al massacro di civili che si stava perpetrando sotto i suoi occhi. I suoi dubbi sul tipo di operazione che era in corso vennero meno solamente quando i carristi sotto il suo comando iniziarono a gridargli che, dalle torrette dei loro tank, stavano assistendo a fucilazioni di persone anziane, donne e bambini palestinesi ad opera dei falangisti. Informava il proprio comandante di battaglione che, dalle loro posizioni, i suoi uomini stavano vedendo operazioni di rastrellamento per così dire “poco ortodosse” all’interno dei campi profughi ma, di converso, il suo superiore gli confermava di essere già a conoscenza di quanto stesse accadendo all’interno dei campi profughi e lo rassicurava di come tutto fosse sotto il controllo. Il capitano Hazari era tranquillo, aveva fatto il suo dovere da ufficiale informando il suo superiore diretto di quanto stesse accadendo avanti ai suoi occhi. Non c’era più bisogno di preoccuparsi perché della vicenda, come confermato dal suo comandante, se ne stava occupando addirittura lo Stato Maggiore dell’Esercito.
È vero che lo Stato Maggiore dell’Esercito israeliano era a conoscenza del massacro in corso all’interno dei campi profughi in quanto che il quartier generale della Brigata del capitano Harazi si trovava sopra il tetto di uno dei palazzi più alti di Beirut Ovest da dove il comando aveva una prospettiva unica sui campi di Sabra e Shatila. Gli israeliani erano lì e non mossero un dito per impedire la carneficina. Le operazioni di rastrellamento continuarono per tutto il giorno 17 settembre. Anche quella notte, il soldato Ari Folman continuò a lanciare i razzi al fosforo bianco e, inconsapevolmente, ad illuminare la via della completa carneficina ai falangisti. Anche quella notte, il capitano Harazi assistette con i suoi uomini alle fucilazioni di civili dalle torrette dei carri armati posizionati sul perimetro dei campi.
Come un macabro requiem, il continuo boato dei colpi esplosi nelle varie zone dei campi continuò per tutta la notte nell’indifferenza più assoluta di chi poteva fare qualcosa per impedirlo. La mattina del 18 settembre, alle prime luci dell’alba, si presentò davanti all’ingresso dei campi di Sabra e Shatila il Generale Amos Yaron, comandante in capo di tutte le forze israeliane nella Regione di Beirut. Salì sul predellino della propria Jeep e, imbracciando un megafono, intimò il cessate il fuoco alle milizie libanesi. Ripeté l’ordine un’altra volta e poi, come era arrivato, si dileguò dalla zona.
Da quel momento le armi smisero di urlare, i cristiano-falangisti iniziarono a fuoriuscire dal campo mentre i profughi palestinesi superstiti furono lasciati ritornare a quello che rimaneva delle loro abitazioni. Insieme ai palestinesi sopravvissuti al genocidio entrarono nei campi di Sabra e Shatila anche i corrispondenti esteri delle testate giornalistiche Occidentali. Furono i primi a documentare il massacro che per trentasei ore ininterrotte subirono i palestinesi. Cadaveri ovunque. Anziani, donne e bambini non furono risparmiati dalla rabbia falangista. Le donne superstiti, avvolte nei loro chador bianchi e neri, iniziarono ad intonare il loro straziante canto di dolore. Camminavano frastornate senza una precisa direzione nelle strade e imprecavano con le mani ed i volti rivolti verso il cielo. I loro volti, già segnati dalle sofferenze che la vita gli aveva preservato, dovettero subire anche questo: la privazione dei propri cari, l’oltraggio dei cadaveri, la fucilazione dei bambini, la distruzione delle proprie case, la perdita di tutto quello di importante per chi è abituato a non possedere niente.
Il massacro di Sabra e Shatila suscitò clamore in tutto il Mondo. Le stime di oggi indicano che, in quei due giorni, furono spezzate le vite di tremila e cinquecento palestinesi di ogni età, accomunate nel loro destino per il semplice fatto di trovarsi nel posto sbagliato al momento sbagliato, a Sabra e Shatila.
Il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite condannò il massacro definendolo atto di “genocidio” con la risoluzione 37/123 del 16 dicembre 1982. Nel 1983 la Commissione israeliana “Kahan”, istituita per indagare sui fatti di Sabra e Shatila dalle autorità israeliane e presieduta da Ithkaz Kahan, giunse alla conclusione che i diretti responsabili dei massacri erano stati i leader delle milizie falangiste filo-cristiane. Tuttavia, ammise anche l’indirettamente responsabilità nel massacro, dell’allora ministro della Difesa israeliana, Ariel Sharon, dei comandi militari della forza d’invasione in Libano del gen. Rafael Eitan, capo di Stato Maggiore, e del gen. Amos Yaron per non averlo saputo prevenire né stroncare mentre era ancora in corso. Ma oltre a ciò, niente più.
Gli unici che hanno pagato per il massacro di Sabra e Shatila sono quelli che non hanno avuto colpe. Sono coloro che hanno partecipato inconsapevolmente alla strage e, tormentati dai rimorsi e dai sensi di colpa, continuano a ricercare una spiegazione razionale sul come sia stato possibile non aver compreso quanto stesse accadendo sotto i propri occhi. Conclusa la guerra, il soldato Ari Folman smise la divisa e, nel corso degli anni, divenne uno dei registi più acclamati di Israele. Nel documentario “Il Valzer di Bashir”, vincitore di numerosi premi internazionali, racconta la propria esperienza personale sulla strage di Sabra e Shatila insieme a quelle dei suoi ex commilitoni, anch’essi segnati per sempre dalla guerra combattuta anni prima.
Trent’anni dopo, per il popolo palestinese, le parole Sabra e Shatila continuano a mantenere lo stesso significano di allora e, cioè, di rabbia e dolore. Per noi, dovranno sempre rappresentare un monito alla coscienza collettiva affinché ciò non avvenga mai più.
Marco D’Agostino
Foto: forumpalestina.org, caparossa.noblogs.org, frontierenews.it