Rileggere Kafka, nel bel mezzo di un’estate paradossale

kafkaImmagina, in una sera d’estate relativamente afosa, la visione di un docu-movie che ti rimane nella testa a martellarti il pensiero. Si tratta del reportage Kafka, ultimo processo trasmesso giorni fa da Rai 5 nel quale si ripercorre la vicenda intrigata degli scritti autografi lasciati dal grande famoso scrittore, autore delle Metamorfosi e sopratutto de Il Processo sul quale si sofferma maggiormente il documentario.

Si parte dalla mancata violazione delle ultime volontà dello scrittore. «Tutto quello che rimane in casa mia dovrà essere bruciato, senza essere letto», aveva infatti lasciato scritto Franz Kafka nel 1924, prima di morire in seguito a complicazioni della tubercolosi. Ancora oggi, dopo decenni, i manoscritti dell’autore austro-ungherese (ceco, dopo il 1918) sono al centro di un acceso dibattito e una complicata vicenda giudiziaria, che coinvolge collezionisti e biblioteche di Germania e Israele. Il documentario di Sagi Bornstein segue, in un complesso giallo internazionale, il viaggio di Max Brod e della valigia con i preziosi manoscritti di Kafka, dall’Europa occupata dai Nazisti alla biblioteca di un’eccentrica signora di Tel Aviv fino in tribunale, dove un giudice dovrà decidere a chi appartiene l’inestimabile eredità letteraria di uno scrittore di culto.

In quasi cinquantuno minuti di reportage, lo spettatore compie un viaggio meta-letterario dove si processa il “processo”, dove i protagonisti dell’inchiesta dicono e non, fra verba volant opache e accuse reciproche dette a mezza bocca, e nel mentre ci si sposta in mezzo mondo alla ricerca degli scripta autentici – che per gli esegeti sono come un santo graal – secondo quello stile filmico angosciato e surreale che ha coniato proprio quell’aggettivo “kafkiano” proprio per indicare il registro dell’assurdo e del paradosso nate dalla penna del grande romanziere ceco.

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Una lettera scritta da Kafka (foto via: panorama.it)

La visione suggerisce così un pensiero sul nostro tempo, che risente della sua  estemporaneità  e tuttavia non meno suggestivo e desideroso di offrire una riflessione sociologica. Il “frattempo” di questi anni di crisi ci vede simili al protagonista del romanzo, Josef K e come lui – senza un cognome come quando in latino si scriveva “quidam”, cioè un tale dunque uno di noi – veniamo trascinati dagli eventi senza avere il potere e la voglia di scoprire il perché. Un nemico dalla forma criptica ci processa senza un reato e magari senza prove. E tuttavia si muore per questo. Dunque sembriamo aver smarrito l’esercizio della domanda e la voglia di capire, probabilmente perché abbiamo già ceduto quote di sovranità intellettuali e morali; nel senso cioè che abbiamo fin troppo delegato ad altri (i media vecchi e nuovi, lo Stato o i poteri forti) il presente e il futuro sociale.

E la maledizione dei testi kafkiani, che sembrano sempre sfuggire proprio quando si è a un passo dal trovarli, e che indicano lo stato di una società anestetizzata ai fatti. Leggere Kafka potrebbe produrre la sana e giusta inquietudine per evitare questo approdo all’”Homo comfort” come suggeriscono molti sociologi di questo periodo: è un fatto sociale conseguente all’ipertecnologia esplosa col web. Un’umanità che sembra liberarsi dalla fatica del lavoro (i dati ci offrono spesso il rifiuto alle mansioni agricole o artigianali) e dal senso del dolore (l’uso ormai smisurato di analgesici o tranquillanti) ma che al contempo perde facoltà sensoriali e abilità conoscitive costruite nel corso dei secoli, diventando sempre più dipendente da una tecnologia che usa ma non conosce. Si delinea così un nuovo modo di stare-nel-mondo che risulta sì comodo ma per molti aspetti disumanizzante. Quest’inerzia è nociva tanto quanto il pessimismo kafkiano.

Giuseppe Trapani

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