
Rileggere Debenedetti nell’anniversario della deportazione degli ebrei romani
Quella del 16 ottobre, nel quartiere ebraico romano che si snoda intorno a via del Portico d’Ottavia, non può essere oggi – come non lo potrà essere mai – una mattina uguale a tutte le altre. Anche se l’aria non fosse fredda e umida, col cielo reduce da una notta di pioggia come nel 1943, anche se le case non sembrano più «viscide e grigie» come allora, anche se per le strade non dovessero udirsi le voci degli abitanti del Ghetto che, obbligati al coprifuoco, escono dalle case al primo barlume perchè «amano la vita: quella vita da cui la notte li ha esclusi, sentono il bisogno che irrompa in loro». Il 16 ottobre 1943 le famiglie ebree, dopo un notte già angosciosa per l’aggirarsi di truppe tedesche urlanti e minacciose, al suono di colpi d’arma da fuoco, videro realizzarsi il più tragico dei destini, quello della deportazione.
Per privare il ricordo di qualsiasi maschera di ipocrisia retorica, come si può talvolta rischiare nelle manifestazioni “commemorative”, non servono grandi gesti, ma solo (ri)prendere in mano un vecchio libro, (ri)leggerlo (porta via meno di due ore) e figurarsi gli ultimi momenti di quelle oltre mille persone – tra uomini, donne e bambini – spazzate via dalla storia. 16 ottobre 1943 è la narrazione-resoconto dell’incursione delle SS nel quartiere ebraico di Roma che ne fece, a distanza di poco tempo (lo scritto composto nel settembre 1944 uscì sulla rivista «Mercurio» nel dicembre del ‘44 e poi in volume nel ‘45), Giacomo Debenedetti (1901-1967). Non era strettamente un romanziere di professione Debenedetti, ma piuttosto un saggista, un critico letterario, eppure riuscì a scrivere un racconto – come afferma Natalia Ginzburg del testo che fa da Prefazione all’edizione più recente e in commercio («Einaudi Tascabili. Scrittori», 906, € 8,50) – «Breve e splendido».
Chi si aspetti la violenza un’azione repentina da blitzkrieg, di un caotico raid dei soldati tedeschi lanciati disordinatamente all’inseguimento di persone in fuga, rimarrà colpito dall’atmosfera di relativa calma che regnò quella mattina. Debenedetti descrive infatti la metodicità con cui i militari a servizio del Reich, fasciati in «quella divisa attillata, di un’eleganza schizzinosa, astratta e implacabile, che inguaina la persona, il fisico ma anche e soprattutto il morale, con un ermetismo da chiusura-lampo», effettuarono il rastrellamento e la rassegnazione con cui i deportati vi si piegarono. I soldati agiscono «con una sorta di rigore professionale, di coscienza del mestiere, piuttosto che stimolati da un preciso accanimento» e «la brutalità che mostravano faceva parte, di direbbe, della tecnica e non divenne, salvo eccezioni, sadismo individuale»; gli ebrei camminano incolonnati, spinti coi calci dei mitragliatori «quantunque nessuno opponga altra resistenza che il pianto, i gemiti, le richieste di pietà, le smarrite interrogazioni. Già sui visi […] più forte ancora che la sofferenza, si è impressa la rassegnazione […] D’altronde è questione di tempo: se non li uccidono prima, verrà l’ora anche per questo».
Ma qualcuno ancora sembra non avere coscienza di quanto accade e accadrà. Un ragazzo, avuto il permesso di fermarsi per bere un caffè, domanda sbigottito al caffettiere: «Che faranno di noi?». Scrive Debenedetti: «Queste povere parole sono tra le poche lasciateci da coloro nell’andarsene. […] E ci dicono pure che cosa sia passato per la testa di quegli sciagurati nei primi momenti: una sfiduciata speranza di non aver capito bene».
Come fu possibile, in quel frangente, conservare tale forma d’ingenua inconsapevolezza sul proprio destino? Anche a questo il racconto di Debenedetti cerca di offrire una spiegazione, narrando la vicenda non solo nel momento del drammatico epilogo, ma nei suoi preamboli, da quando – poche settimane prima – dopo l’ennesima vessazione dei nazisti occupanti (l’obbligo imposto dal Maggiore Herbert Kappler di raccogliere in poco più di 24 ore cinquanta chilogrammi d’oro), i membri della Comunità pensavano di essere al sicuro, di aver pagato il proprio “debito” in quanto duplici colpevoli «come italiani per il tradimento contro la Germania, e come ebrei perché appartenenti alla razza degli eterni nemici della Germania», di aver acquistato l’immunità, perché «I tedeschi saranno dei rascianím (cattivi, ndr), ma sono gente d’onore».
Tale era la sicurezza degli ebrei, «diffidenti […] nelle piccole cose, ma creduli e disastrosamente ingenui in quelle grandi », e neppure l’annuncio dell’imminente sventura portato la sera precedente al rastrellamento da una Cassandra trasteverina («una donna vestita di nero, sciatta, fradicia di pioggia») era riuscita a persuaderli alla fuga.
La parole di Debenedetti riescono ad essere insieme lucide e razionali quanto sentite e partecipate; la sua prosa nitida è a tratti così distaccata, scarna, diretta, disadorna, da sembrare crudelmente priva di qualunque condivisone empatica con il dramma dei deportati, come un medico che davanti al dolore dei propri pazienti, all’ineluttabilità delle malattie incurabili, alla disperazione dei famigliari cui ha dovuto portare il triste annuncio di un decesso, non può permettersi di rimanere coinvolto, di essere toccato dall’umanità di quando sta avvenendo. L’autore sa tuttavia, pur in questo suo distacco, restituire lo sgomento, la pietas, la viva partecipazione emotiva di tutti gli “attori” di quel dramma, non solo quella più naturale e spontanea dei deportati, ma anche degli “ariani”: molti coloro che portarono oro al tempio dopo aver saputo dell’obbligo imposto da Kappler («impacciati […] quasi umilmente domandavano se potevano anche loro…se sarebbe stato gradito…»), qualcuno tentò invano di salvare anche solo una bambina «protestando che è sua. Ma quella si mette a piangere che vuole stare con mamma, e viene rastrellata anche lei».
Si sentiranno ogni 16 ottobre, per le vie del Ghetto, le voci di quel giorno, quelle uscite per avvisare del pericolo un parente, un amico, un vicino di casa, quelle alzate per implorare pietà, ma anche quelle taciute e soffocate – in mezzo al pianto dei piccoli . da chi ha osservato impotente la scena. Qualcuno forse, quelle voci, le sente ogni mattina al sorgere del sole. Per tutti è importante, almeno oggi, restituir loro la forza che Giacomo Debenedetti ha reso immortale.
Laura Dabbene