Recensione – Snowpiercer, Joon-Ho e il Cinema come arte del senso

La locandina di "Snowpiercer" (cineblog.it)

La locandina di “Snowpiercer” (cineblog.it)

Il Cinema, nella realtà dei fatti, non è soltanto divertimento. Il Cinema, se lo si vuole (come, del resto, un po‘ il concetto intero di Arte a tutto tondo), è anche una potentissima arma in favore della tangibile e profumata possibilità di fare proprio un intero mondo linguistico e, di conseguenza, concettuale da assoggettare per esprimere quanto di più sentito si detiene nel proprio personale desiderio di condivisione di un concetto, di un’idea. Pertanto, il Cinema è anche e soprattutto metafora, allegoria di percezioni e impressioni se non della vita nella sua interezza, nel suo più che complesso insieme di sfaccettature. In mezzo a tutto questo, però, un maestro coreano che risponde al nome di Bong Joon-Ho (The host, Tokyo!) va ancora oltre, se possibile, prendendo sotto la scure del proprio giudizio nientemeno che il genere umano per intero in ogni sua singola distinzione sia pratica che ideologica.

Snowpiercer (presentato ieri sera fuori concorso all’ottava edizione del Festival Internazionale del Film di Roma), infatti, è un’opera monumentale sotto molti aspetti, a partire da quello economico (in tanti, all’unisono, confermano la dicitura di film coreano più costoso di sempre) per passare attraverso quello tecnico (scenografie, montaggio, effetti speciali e regia complessiva per improvvisi sbalzi di ritmo e, perché no, di genere) e giungere a quello etico (sceneggiatura molto ben scritta e fieramente capace di sprigionare un aroma di senso profondo a trecentosessanta gradi). Il tutto sotto la veste di una sorta di grande colossal hollywoodiano che, però, hollywoodiano non è, non tanto per differente provenienza (malgrado la folta presenza di interpreti anglofoni) quanto per enormi e tutt’altro che ininfluenti contenuti metaforicamente post-apocalittici.

Le luci si spengono e, di colpo, siamo catapultati in avanti nel 2031. L’utilizzo umano di particolari scie chimiche, inizialmente distribuite nell’atmosfera per tentare di mantenere un certo equilibrio climatico sulla Terra, ha avuto il suo esito più catastrofico: l’intero pianeta è morto assiderato sotto i colpi di una nuova glaciazione. Ciò che resta dell’intero genere umano è racchiuso in un enorme treno (lo Snowpiecer, appunto) in viaggio forsennato e ininterrotto attraverso ogni singolo continente del globo. Il gigantesco convoglio è perfettamente blindato a qualunque cosa ad esso esterna ma, soprattutto, è diviso in tante sezioni per quante possono essere le classi sociali. Così, in coda vengono segregate colonie di veri e propri reietti guidati dalla saggezza di Gilliam (John Hurt) e dall’insormontabile coraggio e spirito umano di Curtis (Chris Evans), costretti a vivere di proteine ammassate in uno stato civile primitivo, mentre, salendo verso la locomotiva “eterna” (il cui motore è del tutto inarrestabile, perpetuo), si sale gradualmente anche di ceto sociale. L’obiettivo di Gilliam e Curtis è quello di scatenare, con saggezza, una rivoluzione che sia definitiva, per prendere finalmente possesso di quella locomotiva e ristabilire l’ordine sociale a suon di sospirata giustizia generale. Ne risulterà un’escalation di violenza, dolore, riflessione e inimmaginabile spirito combattivo che avrà come obiettivo quello di fronteggiare l’artefice e il controllore supremo di tutte le cose, lord Wilford (Ed Harris), non prima di aver sfidato il suo principale braccio destro, la perfida e sadica Mason (una Tilda Swinton sempre più perfetta e prossima all’assoluto del concetto di interpretazione).

Chris Evans in una scena di "Snowpiercer" (cineblog.it)

Chris Evans in una scena di “Snowpiercer” (cineblog.it)

La metafora più evidente, come ovvio, è quella del treno visto come microcosmo ufficiale all’interno del quale, però, prendono continuamente vita infiniti e sempre completamente opposti atteggiamenti, esempi di comportamento e approcci alla vita detentori di infinite maschere saggiamente posizionate anche laddove non sarebbe, forse, nemmeno troppo lecito aspettarsi un capovolgimento di fronte o una certa presa di posizione.

Il fattore sostanziale, ad ogni modo, resta quello riguardante una capacità di trasmigrazione linguistica da idea a quasi geniale sequenza di immagini e sequenze a dir poco fuori dal comune (se per comune si intende il significato più diffuso del termine “blockbuster”). Joon-Ho dimostra di possedere letteralmente una capacità concettuale straordinaria nel condannare figurativamente l’essere umano per ogni disastro sia globale che interiore, e allo stesso tempo innalzarlo a sola ed unica ancora di salvezza o quantomeno simbolo di una pur approssimativa (ma comunque tangibile) speranza.

Essere non hollywoodiani, si diceva. Quanto, realmente, il nuovo continente ha di intenzionalmente predisposto alla vera e pura riflessione? C’è da chiederselo davvero se si vuole tentare di capire dove sta cercando di andare un certo tipo di Cinema nel suo essere (e non essere), sì, divertimento, suspense e pop corn di traverso, ma anche genuino mezzo di espressione morale accessibile a tutti, o almeno a chi davvero lo desidera.

(Foto: blog.screenweek.it / cineblog.it)

Stefano Gallone

@SteGallone

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