
Recensione – Her di Spike Jonze: la macchina umana
«Non c’è alcun dubbio. Lo sento. Lo sento. Lo sento. Ho paura», confessava il sistema operativo più famoso e significante della storia del cinema. Hal 9000, infatti, spiazzava gli stati d’animo di critica e pubblico afferrandoli di petto e scaraventandoli contro l’indicibile essenza di tutte le cose. La macchina più umana dell’umano che, nel frattempo, la ingloba, la manipola e la supera per rendersi altro dal concetto di materia. Certo, una pietra miliare inamovibile come 2001: Odissea nello spazio non dovrebbe essere scomodata per un così futile motivo, anche se, a lungo andare, c’è anche ragione di pensare che proprio da lì sia nata e maturata un’intera generazione di esseri umani definibili come artisti che su quel concetto di interscambiabilità emotiva ci hanno riflettuto eccome.
Il nuovo attesissimo film di quel genio che risponde al nome di Spike Jonze, vale a dire Her (presentato, in concorso, al culmine della terza giornata del Festival Internazionale del Film di Roma 2013), parte, se vogliamo, unicamente da questo singolo dettaglio per costruire un’intera storia basata sulla devastante paura che l’essere umano manterrà in eterno nei confronti del più profondo senso della perdita, quel vuoto colmato, per di più, da qualcosa che di umano non ha assolutamente nulla eppure gioca il suo ruolo in maniera a dir poco solenne, verrebbe da dire. Almeno fino a prova contraria, una prova che, per forza di cose, non tarderà comunque a richiamare all’ordine le varie parti. Ma il concetto, anzi i tantissimi concetti portanti di quello che possiamo definire il nuovo capolavoro di Spike Jonze vanno ben oltre la superficie del grande schermo esattamente nella maniera più profonda, irreversibile e delicatamente straziante alla quale proprio Jonze, più di tantissimi altri, ci ha concesso di avvicinarci a piccoli ma fondamentali passi anche in frammenti di filmografia secondaria (seppur non troppo) quali, su tutti, quell’incommensurabile ed eterno gioiello che resta I’m here, un mediometraggio del 2010.
È proprio un tassello solo apparentemente distaccato come, appunto, I’m here a travestirsi da trampolino di lancio sostanziale per il conferimento di senso (e quanto senso) proposto da Her, oltre la geniale bellezza di fraseggi di sceneggiatura e anfratti di scenografie profonde e piene di un pop artefatto, inesistente ma al contempo affiliabile a ciò che si recepisce senza obiezioni. Anzi, potremmo quasi parlare di un vero e proprio dittico sulla rara ma inestinguibile (per alcuni) purezza dei sentimenti, tematica portante del più recente ramo di opera del filmaker di Rockville e alla quale siamo, sì, a tratti abituati ma della quale non riusciamo per nessuna ragione al mondo a fare a meno. Perché? Forse perché, in fin dei conti, restiamo sempre e comunque un po’ tutti isolati dai nostri sofisticati mezzi di interconnessione comunicativa planetaria ma, paradossalmente, straniante? Forse perché sappiamo di non poter essere, per cause di forza maggiore, quello che abbiamo sempre desiderato e, di conseguenza, deleghiamo a fattori esterni di parlare per noi che, a dirla tutta, abbiamo esaurito le scorte di coraggio? O semplicemente perché, per un motivo come per un altro, nessuno di noi è più capace di concedere tanto a se stesso quanto al prossimo ciò di cui davvero necessita, negli affetti così come nei bisogni di realizzazione?
Questo e tanto ma tanto altro si chiede l’introverso ma socievole Theodore (uno strepitoso Joaquin Phoenix) mentre scrive lettere intime e personali per conto terzi timbrando il cartellino negli uffici di un’apposita ditta. La Los Angeles che si presenta allo sguardo dello spettatore non è platealmente futuristica, eppure dettagli e sfumature aiutano una differente visione a recapitare il messaggio: siamo in un futuro non molto lontano dal presente, o forse in un futuro che non è ancora futuro e, per qualcosa di impercettibile che lo tiene sempre inchiodato lì, chissà se lo sarà mai (esattamente al pari della consistenza dei docili cyborg umani protagonisti di I’m here, completamente immersi in un corredo urbano tutt’altro che futuristico, anzi discriminante e avverso). Theodore, però, mantiene dentro di sé, pur deciso a non nasconderlo affatto, un fortissimo senso di solitudine e dispersione derivante dall’incessante pulsione di abbandono provocatagli dalla separazione nei confronti della moglie Catherine (Rooney Mara), in poche parole il suo unico, vero, grande e inestinguibile amore, vivo sin dagli anni dell’infanzia. I giorni di Theodore trascorrono grigi e sempre uguali, tranne quando il suo corpo si adagia dietro la scrivania del suo ufficio, l’unico luogo dove gli è possibile far emergere a pieno merito tutto lo sterminato amore che la sua anima non riesce più a contenere per quanto è grande. Un giorno, per puro caso ma successivamente incuriosito, si imbatte in Samantha, un software che, se installato su qualunque aggeggio digitale in proprio possesso, fa letteralmente vivere una pura e cristallina coscienza autonoma e assolutamente capace di interagire in tutto e per tutto con gli esseri umani da essere umano. Con una sola eccezione: ovviamente, si tratta solo di una voce (quella di Scarlett Johansson che, tra l’altro, esordisce proprio con un «I’m here») capace di ricoprire più che adeguatamente questo ruolo. Ed ecco che tra Theodore e Samantha nasce una vera e propria amicizia impossibile eppure viva ed efficace: i due, l’umano e il software, sono una coppia perfetta, arrivano ad amarsi, a fare l’amore e a sentirsi entrambi in difetto e a disagio se in assenza dell’altro. Con inevitabili conseguenze, sia nel senso più amorevolmente profondo che in quello più drammatico ma coscienzioso.
Cosa pensare? È una cosa normale e da accettare per considerarsi al passo coi tempi? O è tutto frutto di una celata amplificazione del proprio non sentirsi parte di questo mondo e, quindi, classificabile come efficace pur di non morire dentro, non un’altra volta? E se si trattasse, invece, di ciò che spinge l’umano ad avvicinarsi al proprio simile grazie ad un insegnamento, certo, virtuale e intangibile ma tutt’altro che freddo e distante come sa essere, spesso e volentieri, per contro, solo un mucchio di carne e ossa?
Domande, domande e ancora domande che richiedono una risposta non espletabile, da tenere lì, sulla soglia di ciò che nell’umano pulsa il senso dell’esistenza. Domande poste in maniera tutt’altro che prevedibile e risposte intime, personali eppure mai così condivisibili in quanto oggetto di comprensione pura. Domande e qualche lacrima onesta e assolutamente non retorica (non secondario è il ruolo delle suggestive note di firma Arcade Fire), perché ciò che accomuna Theodore e, in fin dei conti, anche Samantha ad ogni essere umano da ritenersi tale non è altro che la consapevolezza (che sia umana o virtuale ma pur sempre generata da miliardi di calcoli di Dna) di non essere soli al mondo, di non rimanere esclusi da un futuro che tarda ad arrivare solo perché ciò che si ha dentro appartiene all’alba di tutte le cose.
(Foto: ramascreen.com / indie-eye.it / theverge.com)
Stefano Gallone
@SteGallone