Questa settimana nei negozi di dischi: esperimento Pat Metheny – John Zorn

John zorn Pat Metheny (simpatyrecords.com)

La copertina dell'album di John Zorn e Pat Metheny "Tap: John Zorn’s book of angels vol.20" (simpatyrecords.com)

Le sorprese non tardano mai ad arrivare anche in epoche monotone e prive di etica artistica. Se di sorpresa si può parlare considerata la caratura dei diretti interessati, naturalmente. È già nei negozi di dischi da qualche giorno a questa parte, dunque, uno dei (forse) più interessanti dischi dell’anno, prodotto che reca la firma di due menti compositive ed esecutive che giudicare geniali può rischiare di sembrare anche offensivo vista la pochezza del termine stesso in confronto a cotanto estro divulgativo. Il signor John Zorn, da noi citato quasi prontamente ogni qual volta decide di regalare all’umanità un tassello della sua sproporzionata mentalità acido-post-hard-jazzistica, per la realizzazione del ventesimo album a nome Book of angels (serie di album uno più bello dell’altro e direttamente ispirati a contaminazioni di musica ebraica, soltanto uno degli infiniti esperimenti del composer newyorkese nel mezzo di oltre un centinaio di album raramente stancanti, anche dove la portata complessiva rischia di sottoporre l’orecchio più innocente a reiterati stupri sonori: vedi il progetto Naked City), ha pensato bene di chiamare al suo fianco un certo Pat Metheny in veste di quasi “one man band” (all’opera, cioè, con chitarre, tastiere e sintetizzatori “a go go”) per le session di Tap: John Zorn’s book of angels vol.20, album di francamente rara intensità considerando che entrambe le personalità implicate incarnano in tutto e per tutto il concetto di sperimentazione fin nei meandri della vita quotidiana stessa. Se si somma, allora, l’immortale fantasia anche rivisitativa e miscelante di Zorn con la disarmante tecnica propositiva di Metheny, a dir la verità, non resta altro che fiondarsi nel negozio più vicino e spendere questi benedetti venti euro, una buona volta. Con l’ausilio di sole sei tracce, in definitiva, non occorre altro che spegnere le luci, chiudere gli occhi e lasciarsi andare. Consigliatissimo. Anzi: doveroso.

Di sicuro ben meno indispensabile ma non per questo non degno di nota è il nuovo lavoro dei leggendari Wire, ovvero Change become us, disco dalla copertina che, scendendo nei dettagli, risulta quasi essere tutta un perché dal momento che incita la commemorazione delle origini avanguardistiche dei rispettivi membri. Malgrado ci trovassimo, comunque, a debita distanza dai più riusciti esperimenti ’80 post punk (molto post punk) di album epocali come Pink flag o 154 (come è ovvio e giusto che sia), lo storico quartetto britannico (quarta pubblicazione dopo la reunion del 2004) ha maturato l’intenzione di riportare comunque le proprie membra compositive alla stagione d’oro 1979 / 1980, motivo per cui a fare da base per il successivo sviluppo dei tasselli che hanno composto l’album in imminente approdo nei negozi sono proprio spunti inediti lasciati in un cassetto e mai più riproposti per oltre un trentennio. Malgrado possa sembrare un gesto mirato a raschiare un po’ il fondo del barile, l’ipotesi di un valido tentativo di riappropriazione di se stessi, nel vero senso della parola, potrebbe farsi notare come buona. Tanto vale testare.

The national Trouble will find me (consequenceofsound.net)

La copertina del nuovo album dei The national "Trouble will find me" (consequenceofsound.net)

Chi invece proprio non ha bisogno di scartavetrare fondi di barile o vecchi spunti compositivi sono, in questo periodo, forse alcuni tra i pochi soggetti davvero interessati di questo benedetto ambiente che tutti ancora si ostinano a chiamare “indie”. I newyorkesi The National, infatti, hanno da pochissimo donato alle stampe il loro nuovo Trouble will find me, ennesima dimostrazione di come Matt Berminger e soci riescano a non deludere praticamente mai da un punto di vista che implichi, nella sostanza, la valutazione di elementi alquanto rari come fantasia e compattezza sonora a fare da cardine alle strutture compositive, oltre che ai tornaconti emotivi di chi ne assorbe l’essenza. Questa sesta esperienza in studio, dunque, risulta rinnovata e stimolante in termini di interesse proprio come i suoi predecessori da dodici anni a questa parte (caratteristica, si direbbe, molto rara, specialmente in questo particolare ambito), tanto da meritare sicuramente più di un ascolto al fine di carpirne stratificazioni e soluzioni di arrangiamento ai limiti della perfezione. Può non piacere in genere, ma almeno su questo nome e su questa etichetta, la 4AD (quella dei Birthday Party di Nick Cave o di Blonde Redhead, Tv on the radio e Scott Walker, tanto per fare qualche nome); si va quasi a botta sicura.

Per concludere in tranquillità (finché possibile) la settimana di ascolti, infine, male non farebbe prestare attenzione al nuovo lavoro in studio di un’altra band non illegittimamente giudicabile come storica, vale a dire i Counting Crows, freschi di stampa per quanto riguarda il quarto album dal vivo Echoes of the outlaw roadshow, dimostrazione di come dopo ben ventidue anni al servizio dell’udito più desideroso di qualità sia sonore che emotive si possa ancora puntare in alto, seppur nell’ormai eterno limbo di proposte da troppi (francamente) giudicate come valide. Fautori della sopravvivenza del rock americano classico puro, i seguaci di Alan Duritz hanno sfornato un documento di raro pregio stilistico valido anche come sicura conferma di un momento di grandissima maturità personale di ogni singolo membro della band di San Francisco. Gli equilibri elettroacustici sono quanto di più saggio e giusto possa essere dimostrato da musicisti in grande spolvero e convivono, nella loro essenza più primordiale, in una padronanza dello strumento mai fine a se stessa né eccessiva in scelte sia corpose che maggiormente orientate verso il più puro senso della melodia.

Buon ascolto.

(Foto: simpatyrecords.com / consequenceofsound.net)

Stefano Gallone

@SteGallone

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