Questa settimana nei negozi di dischi: bentornato Nick Cave

Nick Cave Push the sky awayA febbraio appena inoltrato, sono già tante e succose le novità discografiche annunciate dai rispettivi produttori e distributori (per non parlare, poi, del mese successivo, praticamente già prenotato quasi per intero dall’arrivo a sorpresa del nuovo importante album ad opera di un certo David Bowie). Tra queste, la novità che, pur non togliendo neanche un briciolo di pregio e spazio alle altre, risulta, al momento, essere la più scintillante è quella legata al nome del leggendario Nick Cave. Al fianco dei suoi fedelissimi Bad Seeds, infatti, il buon australiano sta per donare alle stampe il suo quindicesimo album in studio a nome proprio. Reduce dalla doppia (pur molto notevole) esperienza con l’ensemble dei Grinderman, dunque, Pusk the sky away arriva, a ben cinque anni di distanza dal precedente Dig, Lazarus, dig! a suggellare, seppure tramite i mezzi propri di una personalità artistica passata per mille intemperie creative e (sembra) giunta, ormai, ad una sorta di maturità tardo-blues di stampo prettamente personale, il versante potenzialmente definibile intimista anche se con cognizione di causa, sì, egocentrica ma pur sempre incentrata su una ricerca sperimentale sempre coscienziosamente ancorata a radici ben precise. Più che altro, l’intimismo, in questo caso (in maniera, quindi, alquanto differente rispetto alle calde e avvolgenti esperienze di Boatman’s call o, soprattutto, Nocturama), consiste nella scelta di effettuare composizione, prove e sedute di registrazione in una magione del XIX secolo situata nel sud della Francia, grazie alla quale è stato possibile (pare). Quanto a tematiche, è lo stesso Cave a parlare chiaro: «Se dovessi usare la logora metafora degli album che sono come i figli, allora Push The Sky Away sarebbe il bimbo-fantasma in incubatrice e i loop di Warren (Ellis, ndr) il suo debole e tremante battito cardiaco». Attendiamo, dunque, con ansia e curiosità, come sempre.

Come attendiamo con altrettanta impazienza il nuovo lavoro in studio di un altro grande agglomerato artistico ormai passato nell’olimpo degli déi del cosiddetto post-rock. Stiamo parlando, in effetti, degli scozzesi Mogwai, di ritorno sugli scaffali dei negozi di dischi con, a dire il vero, non un disco completo, bensì un ep, Les revenants, artefice della costruzione di una vera e propria colonna sonora per una serie televisiva francese omonima (attività, quella della composizione di bande sonore, non proprio nuova alla band di Stuart Braithwaite e soci, basti rispolverare il bellissimo Zidane: a 21st century portrait del 2006). In questo caso particolare si tratta di una release unicamente digitale composta da quattro tracce in puro “stile Mogwai”, vale a dire composizioni espresse tramite quella consueta e seminale miscela di dilatazioni soniche e watt che, per alcuni, in questo particolare frangente, risulta poco utile, mentre per altri (noi compresi) può rappresentare un ulteriore ponte verso nuove direzioni sperimentali. Staremo ad ascoltare.

Sigur Ros Valtari film experimentSempre sulla scia di maestranze post rock, poi, altri paladini del genere quali i Sigur Ròs stanno addirittura tentando di estendere il proprio personalissimo campo d’azione ad altre arti complementari come, su tutte, naturalmente, il cinema. Valtari film experiment, infatti, direttamente proveniente, per l’appunto, dall’ultima fatica discografica omonima, si pone, con molta probabilità, il non semplicissimo obiettivo di tradurre in celluloide i brani composti e arrangiati in studio. Portando nei negozi, dunque, un dvd e un blu-ray disc, allora, la band islandese unisce ben sedici cortometraggi (tanti quanti i brani dell’album) nel tentativo di rispecchiare, in maniera quanto più completa possibile, l’atmosfera generata dagli elettroni di ogni singola traccia sonora. Si tratta, dunque, di un vero e proprio esperimento che fa seguito al già diffuso tentativo di videoclip emotivamente esplicativo effettuato per tramite delle splendide immagini di Fjogur Pianòe, con protagonista l’attore hollywoodiano Shea LaBeouf. Il progetto intero, dunque, ha coinvolto anche altri nomi di rilievo tra i quali, ad esempio, Elle Fanning e John Hawks. Regista d’eccezione per uno dei sedici episodi (per il quale varrebbe già il prezzo dle prodotto) è Floria Sigismondi (per intendere, si vedano, tra i tanti, Little wonder di David Bowie, Untitled #1 degli stessi Sigur Ròs, Supermassive black hole dei Muse o Tourniquet di Marilyn Manson).

Infine, altra uscita molto importante sul panorama rock prossimo allo sperimentale è, senza dubbio, quella dei ritrovati Black Rebel Motorcycle Club, ovvero Specter at the feast, in arrivo a tre anni di distanza dal precedente e, purtroppo, non molto interessante Beat the devil’s tattoo (le esperienze migliori restano comunque le prime due, l’omonima e Take them on, on your own). In questo caso si tratta di una sorta di rientro dopo una dichiarata pausa riflessiva durante la quale il trio Hayes-Been-Shapiro e le intenzioni, a quanto pare, sembrano essere delle migliori. «These songs were born to be loud», ha detto, convinto, il chitarrista Robert Levon Been. Speriamo corrisponda a verità. Per testarne la sempre e comunque immancabile energia live, sarà possibile assistere a due concerti italiani il 18 marzo a Milano (Magazzini generali) e il 19 marzo Torino (Hiroshima mon amour).

Buon ascolto.

Stefano Gallone

@SteGallone

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