
Questa settimana al cinema
Si suppone che l’essere umano abbia ancora qualcosa da raccontare. O no? Almeno questo è ciò che viene da pensare spontaneamente quando si cerca di varcare la soglia di una sala cinematografica (ma anche dell’ingresso di una zona adibita a concerti o al momento di sfogliare la prima pagina di un libro). E allora, per cortesia, volete spiegarci, come se avessimo sei anni, in cosa consiste la così fervida esigenza di dare sfogo a libere interpretazioni relative a vite realmente vissute? Già, perché questa pura tecnica da incremento di merchandising chiamata “biopic” sta cominciando un tantino ad infastidire almeno coloro che vorrebbero pagare il prezzo di un biglietto di sala per lasciarsi trasportare da storie nuove, vite tanto immaginarie quanto reali nella loro fattezza onirica da pittura (sia estetica che interiore) su grande tela, qualunque sia la sua conformazione figurativa.
È stato il caso di registi di portata mondiale tra i quali è possibile elencare nomi illustri come Clint Eastwood (dal Charlie Parker di Bird all’Edgar J Hoover di J Edgar), Michael Mann (per Cassius Clay in Alì) o Luc Besson (per il recente The Lady, incentrato sulla vita e sulle battaglie del premio Nobel per la pace Aung San Suu Kyi), tanto per citarne qualcuno. Così come è stato anche il caso più artigiano di The iron lady di Phyllida Lloyd, valso come trampolino di rilancio alla notte degli Oscar per Meryl Streep nei panni di uno dei personaggi più odiosi del Novecento, ovvero Margareth Thatcher. Sarà anche, tra qualche tempo, la volta di riesumare il maestro Alfred Hitchcock (per il cui ruolo sembra essere stato definitivamente scelto Anthony Hopkins) ed è, adesso, il caso di Marilyn Monroe per Marilyn (regia di Simon Curtis, con Michelle Williams, Eddie Redmayne, Julia Ormond e addirittura il bravissimo Kenneth Branagh). Chissà: forse il celeberrimo comico statunitense David Letterman tanto male non faceva a sottolineare come molti degli attori premiati per simili ruoli avessero, in definitiva, semplicemente imitato persone realmente esistite, inventando poco o niente riguardo al profilo psicologico e le movenze del costume che andavano a cucirsi addosso.
Ad ogni modo, il film in questione riporta lo spettatore all’estate del 1956, quando l’indimenticata star hollywoodiana metteva piede per la prima volta su suolo inglese. Durante la luna di miele col marito, il famoso drammaturgo Arthur Miller, la Monroe approfittava anche per partecipare a Il principe e la ballerina al fianco di Sir Laurence Olivier. La storia narrata, però, focalizza sulla conoscenza tra la diva e il ventitreenne Colin Clark, alla sua prima esperienza su di un set cinematografico e, di lì a poco, coinvolto in una settimana molto intensa proprio con la storica ed infinitamente celebrata diva statunitense. Fate voi, se proprio volete.
Ciò che invece potrebbe, almeno in parte, focalizzarsi in puro sinonimo di ossesisone maniacale per il cinema d’azione quasi puro potrebbe essere racchiuso in Killer Elite (regia di gary McKendry), vera e propria carrellata da botteghino per tramite di volti stranoti quali Robert De Niro, Jason Statham o Clive Owen, irrimediabilmente al servizio di action thriller smaccatamente commerciale fin da ora accusato di mancanza di ritmo ed eccesso di stereotipi tipici del genere. Danny Bryce e il suo mentore Hunter mettono in piedi una squadra che, nel 1980, rappresenta quanto di meglio ci possa essere sul tavolo del mercato da spionaggio. Bryce, però, decide di ritirarsi poco dopo aver rischiato di uccidere un bambino innocente ma, un anno dopo, sarà costretto a tornare sui suoi passi perché Hunter viene rapito e tenuto in ostaggio. Come riscatto, dunque, ci sarà la sola possibilità, per Danny, di andare in giro per il mondo alla ricerca di tre killer da annientare. A poggiare un freno a mano nelle costrizini in cui è implicato Danny, però, arriva Spike, l’attuale capo del team che deve essere eliminato. Avrà, dunque, inizio una lotta serrata tra professionisti del settore. Buono, forse, almeno per gli amanti e i cultori del genere.
Su diverse sponde, invece, approda l’ennesima possibilità conferita ad uno spento (almeno fino ad ora) Mel Gibson di tornare alla ribalta in veste di attore, almeno in seguito al fallimento glibale del precedente Mr. Beaver. In Viaggo in paradiso (regia di Adrian Grunberg, con, oltre allo stesso Gibson, Daniel Giménez Cacho, Jesus Ochoa, Dolores Heredia, Roberto Sosa), proprio Gibson interpreta un personaggio chiamato Driver, crudele malvivente appena reduce da un colpo di qualche milione di dollari e, di conseguenza, diretto a sud per sperare in un nuovo inizio completamente differente dalla vita condotta fino a quel momento. Per lui andrebbe tutto bene, se non fosse che la Polizia lo sta inseguendo senza sosta e sul sedile posteriore della sua automobile giace un corpo sanguinante. Arrivato in Messico, in un modo o nell’altro, viene fermato dalle autorità messicane e recluso in una prigione infernale, carcere molto duro nel quale dovrà sopravvivere fra pericoli e complotti. Il tutto con l’aiuto, addirittura, di un bambino di dieci anni. Potenzialmente interessante.
In più, un’altra pellicola dall’aroma di ridestato interesse potrebbe essere Love & Secrets (regia di Andrew Jarecki, con Ryan Gosling, Kirsten Dunst, Frank Langella), storia di del figlio di un importante magnate del mercato immobiliare nella New York degli anni ’80, invaghito e presto marito di una studentessa lavoratrice con la quale evade dalla città posseduto dal desiderio di dedicarsi ad una vita idilliaca nel Vermont. Una volta, però, tornati indietro convinti dai discorsi del padre di lui, lei riprende i suoi studi mentre il compagno assume, gradualmente, atteggiamenti sempre più freddi e distaccati, se non proprio violenti e dispotici. Emergeranno segreti di famiglia che, assieme ad altre situazioni poco consone ad una vita serena, lasceranno che la giovane scompaia nel nulla senza lasciare traccia. Anni dopo, in seguito ad un importante decesso, alcuni giornalisti riapriranno il caso e individueranno proprio nel giovane protagonista uno dei colpevoli principali. Ecco, dunque, che i segreti di famiglia riemergeranno ancora una volta e, a questa turnata, con indizi e vie di comprensione sempre più contorte e preoccupanti.
Da segnalare, infine, anche un interessantissimo documentario di produzione nostrana, vale a dire Il mundial dimenticato – La vera incredibile storia dei mondiali in Patagonia (regia di Lorenzo Garzella e Filippo Macelloni), ricostruzione che trae spunto dai famosi racconti di Osvaldo Soriano e da testimonianze di eminenze del pallone per trascinare l’attenzione sul ritrovamento di uno scheletro umano nel mezzo di resti di dinosauri rinvenuti negli scavi paleontologici di Villa El Chocon, nella Patagonia Argentina. Accanto allo scheletro umano, però, giaceva anche una macchina da presa modello anni ’40 che, in essa, ha conservato per decenni e decenni un film di inestimabile valore storico: le riprese della finale del Campionato Mondiale di Calcio svoltosi in Patagonia nel 1942, in piena contemporaneità con le ben note vicende belliche europee. Si tratta di una tappa della storia del calcio mai riconosciuta da dagli organi ufficiali dello sport e rimasta per decenni avvolta nel mistero. Più che un documentario sportivo, però, il film appare anche come importante viaggio nel cuore della Patagonia e di un relativo mondo mai del tutto conosciuto dalla globalizzata realtà civile odierna.
Buona visione.
Stefano Gallone