
Questa settimana al cinema
Uscite settimanali relativamente altalenanti, quella che ci permette di vivere il cinema (documentaristicamente) anche come sorta di accenno ad una intermedialità funzionale solo grazie all’interesse e alla passione di (si spera non) pochi. È in arrivo, infatti, anche nelle sale italiane, l’attesissimo documentario Pearl Jam Twenty di firma Cameron Crowe, già consolidata conoscenza del quintetto di Seattle (il suo Singles del 1992 includeva anche alcuni membri del gruppo, precisamente Eddie Vedder, Stone Gossard e Jeff ament, come comparse al fianco del Matt Dillon protagonista) nonché premio Oscar per la migliore sceneggiatura originale nel 2001 con Vanilla Sky. Il film (di cui abbiamo già trattato alcuni spunti della preziosa colonna sonora), un lungo e dettagliato documentario sui diretti protagonisti, ripercorre la storia della band dagli albori targati Mother Love Bone fino ai maggiori successi mondiali più recenti, traendo spunto da oltre 1200 ore di materiale accumulato sia di derivazione archivistica che di nuova acquisizione oltre che da interviste utili a completare i tasselli mancanti (quelli di visione esterna) per la costruzione completa del puzzle artistico e, soprattutto, umano del quintetto di derivazione grunge. Proprio a tale scopo, intervengono anche personalità del calibro di Chris Cornell (Soundgarden, Audioslave, Tempre of the dog) e il compianto Layne Staley (Alice in chains) prima della sua prematura scomparsa avvenuta il 5 aprile del 2002 per overdose di speedball. Imperdibile per i fan più appassionati.
Tornando al cinema puramente di fiction, L’alba del pianeta delle scimmie (di Rupert Wyatt, con James Franco, Andy Serkis, John Lithgow, Tom Felton) arriva con l’intenzione di sbancare il botteghino attraverso un prequel riferito, appunto, a Il pianeta delle scimmie firmato Tim Burton (2001) e narrante le gesta del dottor Will Rodman impegnato nelle sue inarrestabili ricerche sulla cura per l’Alzheimer. Testando i suoi esperimenti su degli scimpanzé, uno dei più intelligenti fra questi (Caesar, futuro leader delle scimmie) diventa estremamente cattivo. Credendo che la causa di tale aggressività sia proprio il siero sperimentato, il dottor Rodman abbandona il progetto. Lo scimpanzé, però, comincia a dare segni evidenti di una evoluzione molto rapida e di una sempre crescente intelligenza, cognizione tale da indurlo a fuggire rubando il siero e somministrandolo alle altre cavie da laboratorio, provocando così l’inizio della rivolta.
Importante, poi, è constatare il ritorno sul grande schermo di uno dei maestri della cinematografia europea. Pedro Almodòvar, infatti, ripropone la sua idea di profilmico con il nuovo La pelle che abito (con Antonio Banderas, Elena Anaya, Marisa Paredes, Roberto Alamo), storia di un chirurgo estetico, Robert Ledgard, che ha perso la moglie carbonizzata in un terribile incidente d’auto. Da allora, ha impiegato tutto il suo impegno di scienziato per costruire una pelle sostitutiva, leggermente più resistente di quella umana e con essa perfettamente compatibile. Robert, però, per testare la sua invenzione, ha bisogno di una cavia: così sequestra il ragazzo che gli ha violentato la figlia per obbligarlo a vivere in una pelle che non gli appartiene.
Scadendo nel puro cinismo da botteghino filohollywoodiano stupratore di tematiche anche importanti per farne cibo visivo della peggiore ora, Ma come fa a far tutto? (regia di Douglas McGrath) fa di Sarah Jessica Parker una 35enne Kate Reddy, di giorno assidua lavoratrice in una ditta di gestione finanziaria e di sera madre e moglie felice. La sua è una vita durissima fatta di sacrifici, esistenza che comunque riesce a gestire abbastanza bene almeno fino a quando arriva Jack, un nuovo cliente che attira la donna e avanza al marito una proposta che non può rifiutare. Un ennesima storia reale e coinvolgente disturbata dal solito registro falsamente “mélo” tipico della maggior parte delle commedie statunitensi? Vedremo.
Per quanto riguarda prequel, sequel o ritorni di varia forma, incontriamo anche la commedia Niente da dichiarare (regia di Dany Boon, con Benoit Poelvoorde, Dany Boon, Julie Bernard, Karin Viard), ovvero una specie di seguito ideologico del fortunato precedente Giù al nord, almeno per quanto riguarda i personaggi e le strambe vicende che si trovano a dover affrontare per forza di cose. In questa sede, dunque, assistiamo ad un antefatto portante: la caduta delle frontiere che separano i vari paesi europei grazie al trattato di Maastricht. Così, un doganiere belga e uno francese vedono improvvisamente scomparire il loro posto di lavoro al confine tra due piccole cittadine. Di conseguenza, i due formano un vero e proprio distaccamento della dogana pur di mantenere il loro impiego ma, ovviamente, vengono derisi e sbeffeggiati da chiunque si trovi a passare davanti alle loro deboli imposizioni di “alt”.
Infine, non è da lasciar passare inosservato, probabilmente, Io sono Li (regia di Andrea Segre, già affermato documentarista su tematiche di immedesimazione multiculturale, con Zhao Tao, Rade Sherbedgia, Marco Paolini, Giuseppe Battiston), storia di Shun Li, lavoratrice in un laboratorio tessile della periferia romana con l’intento di ottenere i documenti necessari a far venire suo figlio diotto anni. Viene, però, improvvisamente trasferita a Chioggia, una piccola cittadina della laguna veneta, per lavorare come barista in un’osteria frequentata, tra gli altri, da Bepi, pescatore di origini slave. Il loro incontro equivale ad una fuga spirituale di entrambi dalla solitudine con l’obiettivo di avvicinare culture diverse ma non più così lontane.
Buona visione.
Stefano Gallone