Il caso Pubblico, un ‘giornalicidio’

pubblicoRoma – «Oggi parliamo dell’Italia e anche di noi. Per una volta scriverò tanto, ma la materia, come potete intuire, è complessa. Partiamo da Pubblico. Non ce l’abbiamo fatta, abbiamo perso. E di più: io, in prima persona, come direttore, ho perso la sfida che avevamo insieme tentato promuovendo e lanciando questo quotidiano. Invocare attenuanti qui non ha senso. È un fatto, è la nostra notizia di oggi, anche se amara» con queste parole inizia il lungo commiato Luca Telese, per cento giorni alla guida di Pubblico, che oggi esce in edicola con il suo ultimo numero.

Una chiusura annunciata che è arrivata nel giro di tre settimane a causa di difficoltà economiche: «Il punto di pareggio era a 9.600 copie. Poi siamo scesi, con alcuni risparmi, a 8.200. Ma i nostri lettori, seppur affezionati, si fermano a 4.000. Non ce l’abbiamo fatta ad andare avanti con le nostre forze. Non abbiamo dietro né un grande partito né un grande costruttore. E così,quando i soldi sono finiti – il capitale sociale iniziale era di 748 mila euro (ndr) – i soci hanno dimostrato difficoltà a ricapitalizzare» ha spiegato lo stesso Telese.

Non sono mancate le polemiche sollevate dalla stessa redazione di Pubblico le cui ponderazioni trovano spazio sul medesimo giornale nella sua ultima uscita: «Primo, il capitale sociale esangue, che non poteva certo reggere ad una programmazione economica di almeno sei mesi. Secondo, il prezzo di copertina iniziale ad un euro e mezzo, evidentemente troppo alto all’epoca della “grande crisi”.Terzo, la totale assenza di una campagna pubblicitaria che facesse conoscere il giornale ai lettori, nell’ingenua convinzione che ai tempi di internet e di Twitter bastasse il tam-tam digitale per farsi strada. Quarto, la totale mancanza di un “piano B” nel caso in cui le cose fossero andate male. Qualche tentativo di correggere la rotta, appena si è visto che i conti – evidentemente – non tornavano? No».

Sta di fatto, comunque, che Pubblico non è piaciuto per una serie di motivi, per lo più legati alla personalità del direttore, che si leggono anche nei commenti all’editoriale di commiato di Telese: «Spiace per chi ha perso/perderà il lavoro, ma tu Telese te lo sei proprio meritato. Incapace, invidioso, spocchioso, maleducato: sul blog del Fatto ti vantavi per un 2% di share col tuo amichetto Porro, vantati anche di quest’altro bel successo lavorativo. E adesso torna pure a vomitare addosso al Fatto, ci faremo un’altra grassa risata» oppure «Io, io, io, io, io, io, io, io, io, io, io, io, io, io, io, io, io, io, io, io… Leggendo anche questo articolo è questo l’eco continuo che si ode sullo sfondo. Anche quando non parla di sé, si sente sempre e continuamente quell’io, io, io, io, io, io, io, io, io in sottofondo. Addirittura anche di più di quando parla Berlusconi, che l’io se lo dice da solo, invece Telese non ha bisogno di dirlo, incredibilmente lo si sente in sottointeso. Sinceramente Telese, come direbbe Rino Gaetano, finisce che prima chiude il giornale, e poi Nun te reggae più!».

Al di là della contestabile direzione del direttore e delle scelte strategiche del tutto approssimative, con la morte di Pubblico ci troviamo a dover affrontare due verità: la prima è l’impossibilità, nella  nostra beneamata Italia, di portare avanti un giornalismo indipendente dai poteri economici forti  –siano essi rappresentati dallo Stato o da grossi investitori privati – la seconda è che la qualità del giornalismo italiano sta, se possibile, peggiorando proprio perché irreggimentato, per nascita o per fattori “ambientali”.

Dopo la delusione dell’Huffington Post Italia, affidato a Lucia  Annunziata e al Gruppo Editoriale L’Espresso, in cui è divenuto ancor più lampante come il giornalismo italiano “se la suoni e se la canti da solo” quando alle spalle c’è un forte sostegno, ora arriva la dimostrazione che basti un grosso nome e un po’ di fango per aprire – e chiudere – un giornale, per dire “abbiamo scherzato”.

Ai redattori e praticanti a spasso, incondizionata solidarietà. A chi da anni monopolizza e soffoca il giornalismo italiano, niente, tanto le loro voci sono sempre più forti.

Francesca Penza

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