
Placebo. Loud like love, quel gioiello di sincerità artistica – Recensione
È già nei negozi da qualche giorno Loud like love, il nuovo attesissimo album in studio dei signori Placebo. Più di un ascolto, certo, è doveroso per qualunque prodotto si presenti al pubblico ponendosi degli obiettivi di miglioramento stilistico o semplicemente ascrivibili ad una agognata maturità. Per quanto riguarda il trio britannico (che, tra l’altro, l’anno prossimo compie vent’anni di attività) e il suo settimo lavoro in studio, però, un ascolto doverosamente attento e denso di trasporto è quanto basta per fare degli assorbimenti successivi puro godimento di quello che, a tutti gli effetti, sembra davvero essere un vero e proprio gioiellino.
Proprio così: Brian Molko e soci hanno sfornato un lavoro apparentemente semplice eppure ricco di sfumature, ambizione post punk – rock e puro pathos da rinnovata attitudine di sincero e diretto songwriting. Cosa che, a dire il vero, seppur non completamente assente, si rendeva altalenante in pur notevoli lavori precedenti come, su tutti, Sleeping with ghosts (2003), arduo successore di una trilogia pressoché perfetta che partiva dall’esordio eponimo approdando al carisma di Black market music (2000).
Certo, i livelli di magnificenza di Without you I’m nothing (1998) sono lontani sia dal punto di vista cronologico che da quello riguardante l’approccio alle strumentazioni, e tali devono rimanere se in un genere comunque poco predisposto a chissà quali sperimentalismi si vuole progredire seguendo la propria strada in maniera più o meno naturale.
Dopo un cambio di line up che ha visto l’ex (e fondamentalmente storico) drummer Steve Hewitt essere sostituito dal più energico ma preciso Steve Forrest (ex specialista punk assieme ai suoi Evaline) per la successiva produzione di un album, Battle for the sun (2009), comunque corposo e pregno di spunti nuovi ed interessanti a livello di arrangiamento, e dopo il preannuncio del buon ep B3 (2012), ben quattro anni dopo arriva quella che, per l’appunto, potremmo quasi considerare una definitiva prova di maturità, qualora di essa ci fosse davvero bisogno di fare un certo uso.
L’elevata qualità di un prodotto discografico positivamente ispirato come Loud like love (uscito sia in normale formato cd che in vinile, deluxe edition contenente un disco aggiuntivo con alcuni brani della scaletta risuonati in presa diretta assieme a un inedito, e super deluxe edition composta da 3 lp, 2 dvd e 1 cd), lavoro tematicamente alquanto oscuro malgrado i colori esplosivi della luminosa copertina, proviene da una vera esperienza consapevolmente accumulata negli anni e resa evidente fin da subito, ovvero dall’apertura del brano omonimo così carica di verve punk rock da far pensare ad una sorta di ritorno alle origini mescolato alle consapevolezze di un ultimo decennio di importanti evoluzioni personali.
Ma, si sa, i pezzi che le produzioni e le distribuzioni maggiori scelgono di far passare per le stazioni radiofoniche del pianeta, in fin dei conti, risultano quasi sempre essere quelli più “scarsi” dell’intero album. L’istantaneo proseguimento di Scene of the crime, infatti, pone subito in essere la questione evolutiva maggiormente incentrata su un coscienzioso approccio diretto alla questione songwriting seppur coraggiosa nei suoi inserimenti elettronici, salvo poi ricevere la benevola smentita dalle splendide scelte melodiche di Too much friends (contornata da tematiche di estrema e lacerante attualità come, su tutte, la non-identità e la devastante depressione provocata dai non-rapporti in epoca di eccessiva e superflua riproducibilità tecnica), la delicata e disperata Hold on to me (a tratti tanto quanto le declamazioni morrisoniane dell’American prayer nei versanti parlati, buttiamola lì) e A million little pieces, vera perla di anima e cuore riversato su quello che resta di uno spartito. Exit wounds è forse il maggior tentativo di incursione sintetica assieme al post punk-glam della successiva Purify, mentre, se Rob the bank mantiene un certo stampo, come dire, puramente Placebo, Begin the end pensa un po’ di più alle docili lezioni di chitarra di un David Howell “The Edge” Evans nel suo rendersi puro trasporto in un crescendo emotivo (non molto lontano dagli apici della Without you I’m nothing che dava il titolo al capolavoro del 1998) capace di traghettare verso un finale come quello della nenia orchestrale di Bosco, vera e propria dichiarazione d’amore sincero e passionale verso una qualunque tipologia di personale angelo custode, reale o immaginario che sia (merce rara, di questi tempi, sia la capacità di immaginazione che le possibilità di concreto sostegno umano).
Archi, pianoforte, sintesi elettronica: tutti elementi non soltanto aggiuntivi che vanno, cioè, ad innestarsi in maniera praticamente perfetta nel corpus sonico di una band già ben più che rodata ma, proprio per questo, assolutamente capace di una scelta stilistica sostanzialmente doverosa nonché estremamente piena di voglia di porsi in maniera sempre differente (pur rientrando sempre negli stessi lucidi schemi strutturali) e, di conseguenza, sempre più dedita allo studio e al rispettivo rinnovamento della propria stessa personalità artistica (e non solo).
In definitiva, qualora le uniche proposte internazionali, diciamo, mainstream continuino ad essere le solite quisquiglie (non)indie(non)rock da scarpini più o meno lustrati e solite chitarrine accordate un ottava più in su, non sarebbe affatto cancerogeno entrare in un negozio per chiedere una copia di questa piccola e (pare strano ma sembra essere anche) umile perla sonica. Il formato prediletto resta ovviamente a vostra discrezione.
(Foto: virginradio.it / panorama.it)
Stefano Gallone
@SteGallone