
Palermo è un deserto produttivo
Uno studio Cgil lo attesta: l’86,4% del Pil della Città Metropolitana viene dai servizi, ma la fine delle vecchie cattedrali nel deserto può spingere verso il cambiamento
Palermo – Il primo di luglio è stato presentato nella sede del rettorato dell’Università di Palermo a Palazzo Steri il rapporto sullo stato di salute della capitale siciliana e quinta città d’Italia per numero d’abitanti. Il dossier dal titolo “Dalla crisi a Palermo 2020. Analisi sul manifatturiero della provincia di Palermo” è stato redatto dal Cerdfos, il centro studi della Cgil, riguarda tutta la Città Metropolitana e fa anche alcune considerazioni di carattere regionale. Sembra essere ufficiale che uno dei più grandi sindacati italiani inizia a comprendere la gravità della situazione socio-economica di Palermo, sostenendo che se non si cambia rotta il declino è inevitabile.
AZZERAMENTO DEL MANIFATTURIERO – Una caduta che continua imperterrita in un’area metropolitana da 1 milione 271 mila abitanti con aree urbanizzate, aree montuose ed aree agricole che non può solo produrre servizi. La produzione manifatturiera è fondamentale per l’ottenimento di una sostenibilità di medio lungo periodo e ad oggi, secondo lo studio, l’86,4% del Pil viene dai servizi e solo il restante 13,6% viene da agricoltura e industria. Il manifatturiero in particolare fa il 3% del valore aggiunto, contro il 5,5% dell’anno passato.
LE ZONE INDUSTRIALI -Palermo Nord, Brancaccio, Carini e Termini Imerese sono dagli anni 60’ le zone industriali di quella che un tempo si chiamava provincia. Palermo Nord è oggi stata svuotata dalla Telecom che mantiene solo un ufficio, non vi è più Accenture, alcuni edifici sono vuoti ed è rimasto l’assessorato alle attività produttive con attorno, al posto dei capannoni industriali, grandi retail: da Lidl a Toys, da Brico a Mercatone Uno, ci sono tutti i grandi protagonisti che pagano una miseria i prodotti agricoli locali o hanno fatto scomparire giocattolai storici come Studer o hanno messo in crisi i mobilifici locali. Le uniche eccezioni sono le industrie di caffè ed il Centro Nazionale per le Ricerche. Brancaccio è l’ombra di se stessa, Carini ha sofferto la crisi dell’Ansaldo e Termini Imerese senza FIAT è stata praticamente annullata anche se adesso, con Blutec che ha rilevato lo stabilimento, qualcosa sembra muoversi verso una ripresa della produzione. Se si considerano anche i Cantieri Navali di Palermo, si può dire che sono lo spettro di ciò che erano decenni or sono.
DESERTIFICAZIONE – Le imprese attive in provincia di Palermo sono passate da 6.874 nel 2009 a 5.667 nel 2015, con un calo a due cifre costante dal 2011 in poi. Dal 2009, le maggiori flessioni riguardano l’abbigliamento (-38%), tessile e pelli (-30,4% e – 44%), fabbricazioni mobili e lavorazione legno (- 45% e -37,6%), fabbricazione computer e prodotti elettronici (-35%) e prodotti in metallo (-23%). Gli unici due settori che in questo arco di tempo 2009-2015 hanno resistito e si sono accresciuti sono stati quello alimentare e delle bevande (+ 39 unità) e quello della manutenzione e installazione delle macchine (+115 unità). Queste ultime sono state favorite dalla mancanza di liquidità delle aziende per comprare nuovi macchinari che ha spinto a riparare e mantenere i vecchi impianti. In questo quadro l’export non può che essere pessimo, nonostante sia in alcuni casi una fonte di sopravvivenza: nel 2014, il valore dell’export ha raggiunto i 252,8 milioni di euro, cioè l’1,2 per cento del valore prodotto in provincia. Il saldo commerciale è negativo per quasi 226milioni di euro. Il 33 per cento delle esportazioni ha coinvolto il settore agro-alimentare.
IL TURISMO NON BASTA – La crescita del turismo in tutta l’ex provincia, data principalmente da dinamiche esterne alla Sicilia, non può ovviamente ovviare al disastro produttivo di un territorio così grande, come non possono bastare le iniziative di start-up lanciate con fondi davvero ridotti dall’incubatore Arca dell’Università di Palermo, che pure sembra muoversi verso la giusta direzione. Il resto in città è servizi, tra i quali i mega call center che nulla insegnano ai propri dipendenti se non rispondere al telefono, uno dei quali, Almaviva, vorrebbe andare via a delocalizzare felicemente. La gente è tornata ad emigrare in massa e chi rimane lo fa tra grandi difficoltà: secondo gli studi CGIL infatti il tasso di disoccupazione nell’intera città metropolitana è del 42% contro il 23% della sola città di Palermo, con 102 mila persone in cerca di occupazione e 417 mila inattivi, cioè persone che non studiano e il lavoro neppure lo cercano. Chiaramente si tratta di dati ufficiali e dobbiamo tenere in conto del lavoro irregolare che sfugge alle statistiche che probabilmente occupa in realtà una grande parte di quegli inattivi e disoccupati sopra menzionati. Ma si sa che fino a che ci sono le pensioni dei nonni, una raccomandazione qua e là o il capo mandamento che “fa lavorare” la rivoluzione resterà lontana. Nonostante questo, l’attuale Sindaco della Città Metropolitana di Palermo, Leoluca Orlando, continua a partecipare ad inaugurazioni di ipermercati che svalutano i prodotti locali e dal punto di vista economico si è concentrato esclusivamente o quasi sul turismo. Già il turismo, con questi dati, la cosa buffa è che c’è ancora chi dice che in Sicilia si potrebbe vivere solo di quello.
PROPOSTE DI CAMBIAMENTO – La CGIL, svegliatasi improvvisamente dal silenzio degli ultimi anni, oltre all’analisi si è spinta alla proposta: un’associazione tra scuole, università e imprese che si occupi di sviluppo basato sulle specificità locali e sull’industria altamente tecnologica che fonda la propria produzione sul riuso e sul recupero dei materiali, cioè la cosiddetta economia circolare. La verità è che i barlumi di cambiamento devono essere messi in rete con nuovi strumenti di cooperazione. Perché un bene comune gestito come nel caso dell’Ecomuseo del Mare, i gruppi di acquisto solidale, gli orti urbani, i ragazzi di Bagheria che vincono il premio AXA per la migliore idea di eco-sostenibilità, le nuove imprese agricole, Mosaicoon o un Fablab come quello aperto all’Istituto Vittorio Emanuele III di Palermo possono fare la differenza solo se inseriti in un sistema virtuoso che al momento a Palermo non esiste.
Domenico Pellitteri