
MasCara, ‘Lupi’ affamati di un futuro a portata di mano
È uscito ‘Lupi’, il nuovo album dei MasCara, un tassello fondamentale che va ben oltre il solo essere un disco. Armatevi di pazienza e scoprite con noi perché
Non serve andarsene in giro a cercare e riproporre parole già scritte e, spesso, fin troppo profanate per tentare di spiegare i soliti concetti dell’ultima ora. Il desiderio di conferma del secondo album ufficiale, il mantenersi o no su certi stili e determinate tematiche, il più o meno interessante proseguimento di una carriera che, per forza di cose, a volte passa per duri compromessi, fatiche più grosse del dovuto, inevitabile bivio tra autoreferenzialità produttiva sinonimo di qualità artistica o facilitazioni da svendita mercantile, eccetera eccetera eccetera: concetti buoni per penne e anime ben meno appassionate, rivolti invece a quelle attente e, soprattutto, sopravviventi di quell’ossigeno puro e cristallino che soltanto la brillantezza e la sincerità di certe (tante) idee può sprigionare.
IL SECONDO ALBUM E’ QUELLO PIU’ DIFFICILE? – Perle ai porci, molto spesso. Sì, perché il secondo album dei MasCara, Lupi, non ha niente a che vedere con nessuno di quei soliti pseudo-concetti intrisi di plastica da baraccone su scaffale da megastore. Lupi è molto ma molto di più perché, in fin dei conti, la consapevolezza di trovarsi dinanzi ad un disco (e una band o, meglio, un agglomerato di uomini veri) estremamente importante (se solo qualcuno riuscisse o anche solo provasse a cogliere l’interminabile oceano di senso aderente ad entrambi) non può fare altro che spopolare agli occhi interiori di chi vede in queste cinque anime pure una spinta enorme verso il desiderio di rinascita tanto spirituale quanto pratico, talmente pratico da rendersi sinonimo di rabbia paralizzata dalla consapevolezza di aver così tanti compiti da svolgere o, almeno, da provare a mettere in atto per sé e per il prossimo.
Lupi non è soltanto un disco, così come non lo era nessuna produzione precedente firmata dalla band varesina di Lucantonio Fusaro (voce, chitarra e testi), Claudio Piperissa (chitarra), Marco Piscitiello (basso), Simone Scardoni (tastiere e sintetizzatori) e Nicholas Negri (batteria). Se per qualcuno, in sostanza, è vero che il secondo album è sempre «il più difficile nella carriera di un artista», per tanti altri (tra cui noi) è principalmente il giusto e corretto proseguimento di un percorso così fresco e giovane eppure così denso di contenuti da rivelarsi più adulto di qualunque dottrina politica o antropologica.
UN PERCORSO, UNA VITA, TANTE VITE – Perle ai porci, per l’appunto, considerando la situazione attuale sia sociale che (di naturale e ovvio riflesso) artistico-culturale. In quanti riusciranno a cogliere veramente, almeno stavolta, il senso così estremamente profondo di ogni nota e parola espressa dai MasCara fin da quello splendido ep d’esordio, L’amore e la filosofia del 2010, passando per le irrinunciabili e speranzose epifanie di Tutti usciamo di casa (2012)?
‘Sincerità’ è la parola d’ordine. ‘Bellezza’ ne è l’incompresa dirimpettaia. ‘Coraggio’ ne è l’essenza primordiale. Proprio quel coraggio che, in questo altro grande simil-concept album, manca (o forse no) ai due protagonisti principali, Isaac e Laica, scissi tra immobilità fisica e divampare esplosivo interiore, joycianamente in bilico tra consapevolezza e desiderio di movimento necessario e realtà dei fatti paralizzata da dinamiche interiori dovute, però, a (non) sostanze (in)civili (l’Italia dei “choosy”, dei “bamboccioni”, degli “sfigati”, dei tre governi mai votati, delle “rivoluzioni” discusse al bar, dello scegliere di darsi e non di fare fuoco).
Rabbia, rabbia, rabbia e ancora rabbia. Questo è ciò che emerge da liriche mai così possenti e dirette pur nella loro franca e (stanca ma) sublime poesia. Lupi esprime, infatti, il sublime attuale nel vero senso del termine: bellezza ultraterrena dei sentimenti generazionali mista ad atroce dolore e terrore di incompiutezza anestetizzante per cause terze e personali per riflesso mediatico.
Proprio la paura dell’incompiutezza è uno dei temi portanti di un album fondamentale per le attuali generazioni, più di qualunque inno da palcoscenico del primo maggio, più di revival progressive “seventies” tricolore, più di qualunque manifestazione sbandierante con cartellino timbrato a fine giornata.
DÈI PER SEMPRE – Alzi la mano chi non ha mai provato il gusto agrodolce del desiderio di affermazione personale come individuo vivente, non come firma. E scagli la prima menzogna chi non ha mai urlato all’universo la propria consapevole necessità di divulgazione di un pensiero attuabile in semplici eppure proibite pratiche quotidiane (altra preziosità profanata da quelli che Raul Montanari chiama “i poeti di Facebook”).

I MasCara. Da sinistra: Simone Scardoni, Claudio Piperissa, Lucantonio Fusaro, Marco Piscitiello, Nicholas Negri (musicclub.eu)
Lupi parla esattamente di tutto questo: fame di risveglio concettuale dal nuovo ventennio telegenico e allerta per quello digitalmente successivo, consapevolezza della propria non-posizione, desiderio di lotta perenne non tanto in strada quanto dentro di sé per tentare di abbattere floydianamente il muro delle azioni mai compiute per paura, incapacità, inettitudine o, il più delle volte, speranza nell’avere, forse, ancora qualcosa di prezioso da non voler/dover perdere. Qualcosa di comunque sacro, perché eternamente umano.
ESPERIMENTO E CONCETTO – I MasCara, in Lupi, dicono esattamente tutto questo e lo fanno rinnovando non solo il linguaggio verbale (raramente così diretto, immediato ed efficace senza passare per un tavolino) ma anche e soprattutto quello musicale. Prevale, infatti, una importante sperimentazione elettronica, novità che Fusaro e soci hanno gradualmente raggiunto e studiato nel corso del tempo, da primi brani come Andromeda a cover personalizzate come Guerra dei Litfiba. Una sperimentazione sempre legata ad una cura maniacale per l’arrangiamento tutt’altro che fine a se stessa perché genialmente capace di raggiungere emittenti radiofoniche divulgando, però, attraverso un sempreverde formato canzone di derivazione rock-wave, messaggi di capillare importanza etica e morale. Una specie di tentativo di capovolgimento del sistema concettuale dall’interno (derivante anche dall’uso citazionistico di quella litfibiana «pioggia di luce che mi accecherà» adeguatamente sovvertita e ricontestualizzata in termini di cecità rabbiosa) forse paragonabile solo agli azzardi tematici del Battiato di La voce del padrone con gli esoterismi e le filosofie messe nelle bocche e nei piedi degli «scemi che si muovono» sulle pedane stroboscopiche.
Ecco, allora, apparire le Macchine da guerra dei «baci rubati» ad una generazione nata morta sotto la mannaia di giorni splendidi perché dono vitale, eppure stuprati e squartati a sangue freddo da un contesto ignobilmente inadatto. Il pulsare cardiaco e vitale delle ritmiche e dei riff sostanzialmente rock sono il significante principale del brusco e improvviso passaggio ai beat electro-wave di Dèi per sempre, resi celestiali da sprazzi di corde imploranti limpidezza ma immischiate negli «sguardi di tutti», nelle «voci dei cantanti di strada spezzate dalle autorità» e nelle «vite che non avremo mai», condizioni volutamente tumefatte eppure melodicamente e concettualmente perfette nel loro sigillare il senso più profondo dell’opera in poche frasi utopiche, nonostante tutto («Ogni sera io vorrei fermare il tempo / e con la forza dei nostri occhi piegare gli spazi / e proclamarci dèi per sempre»).
DI RABBIA E RINASCITA – Il desiderio di nuova linfa vitale, tra «paura e disaccordo», procede attraverso nuove concezioni di religione temporale smembrata da artificialità da profanare a loro volta (Cattedrali al neon), mentre il primo a fare di tutto questo una sua soggettiva personale comincia a disimparare ad amare ciò che amore non appare: è l’Isaac che «non piange più» e che cerca di emergere con la forza dei Graffiti «sulle costole di questo posto che non ti vuole più», smascherando al proprio stesso sguardo la Falsa età dell’oro che lo ha costretto a nascere e faticarsi l’esistenza (teoricamente un dono divino) senza scopo né motivo alcuno.
Emerge qui la consapevolezza di non esser soli nelle proprie convinzioni («Quando ho visto la ragazza immobile / non aver timore dei poliziotti e degli idranti / restare ferma senza dire niente / ho capito: è pronta a farsi male») ma prevale il terrore dell’immobilità su ogni azione pratica («Dovrei essere per strada / a farmi male insieme a lei»). Si sfiorano i Muse attualmente sperimentali (che pure hanno sempre avuto argomenti non così divergenti da questi) sui Riti ancestrali necessari a mettere alla prova il proprio io testando le proprie eventuali capacità di rivolta interiore, prima di arrivare a sposare il punto di vista femminile (Laica), eretto a paradigma fondamentale del coraggio insito in ogni pensiero inoculante idee vere e necessarie a provare almeno ad essere una frazione di quei Lupi affamati di possibilità da poter sfruttare sassi alla mano nelle strade fumanti dell’anima (Barricate). Ma cosa resta dopo la rivolta del pensiero? Occorre dare spazio a quelle “città da costruire” dopo il cataclisma delle intenzioni impavidamente espresse (Gocce di benzina). E allora ecco balenare il paesaggio delle novità possibili metalinguisticamente introdotte dall’altra novità, quella sonora della grazia di un sassofono (Vita sonica).
Perfezione delle melodie, minuziosità degli arrangiamenti, fame di novità sia artistica che sociale, affiatamento estremo di cinque ragazzi/uomini densi di esperienza cutanea da regalare al prossimo. Cosa altro pretendere dalle nuove generazioni? Basta coi finti discorsi paternalisti della malora. La soluzione è qui, a portata di mano.
Prendete e mangiatene tutti, allora. Questo è il calice della vera alleanza.
Anche in streaming integrale gratuito qui.
Voto: 9
(Foto: sentire ascoltare.com / musicclub.eu / mascarawave.it)
Stefano Gallone
@SteGallone