Majewski introduce Bruegel al cinema: oltre il saggio pittorico

Nel corso dell’annata 2008 del Festival Internazionale del Cinema di Roma, la sezione L’altro cinema / Extra aprì le danze presentando un nuovo e, come sempre, geniale lavoro del maestro gallese Peter Greenaway. Rembrandt’s j’accuse si poneva, infatti, il difficilissimo ma estremamente coinvolgente compito di isolare decine e decine di particolari di uno dei quadri più famosi, appunto, del fiammingo Rembrandt, La ronda di notte, utilizzando alcuni frammenti del suo film precedente (Nightwatching) che, sommati ad una estremamente saggia, precisa e dettagliata scansione personale della nota tela (per tramite del sempreverde utilizzo delle ormai tipiche modalità semioticamente innovative e alla base del concetto stesso che Greenaway ha sempre avuto nei confronti del mezzo cinematografico), andavano a raccontare, con estrema sottigliezza, una vera e propria situazione sociale, politica, civile, economica ed ideologica del periodo in cui il quadro venne composto. Consapevole della riuscita del suo prodotto grazie, quasi esclusivamente, alla sterminata mole di indizi e messaggi segreti che il quadro stesso conteneva, fu proprio Greenaway, in conferenza stampa, a definire Rembrandt (non poi così provocatoriamente, in effetti) come “il primo vero cineasta”.

Flashback secolare. 1564. Pieter Bruegel il Vecchio, anch’egli fiammingo, aveva già completato ogni rifinitura di uno dei suoi più celebri progetti pittorici, Torre di Babele (1563), nel quale era riuscito a sperimentare notevolmente il suo tentativo di disseminazione di indizi e messaggi attraverso dettagli tutt’altro che secondari. L’anno successivo, dunque, Bruegel si apprestava a delineare le caratteristiche definitive di quello che fu Salita al calvario, forse la maggiore ed assoluta espressione della sua personale visione del mondo: la quotidianità della quintessenza umana, ovvero quel risvolto universale fatto di dedizione all’esistenza sopraffatta da cause di forza maggiore quali l’eterna lotta tra temporalità gerarchicamente interpersonale e l’inequivocabile oscurità delle devastanti titubanze divine. Un particolare troneggia nel cuore della tela, raffigurante, appunto, la salita al calvario del Cristo sofferente con la croce in spalla: la totale indifferenza generale nella realtà oggettiva circostante a quello che, invece, dovrebbe essere il nucleo dell’azione.

Flashforward. 2012. Lech Majewski, importante regista polacco, forte di una predilezione non a caso pittorica (veterano dell’Accademia di Belle Arti di Varsavia), arriva a Roma per proporre in anteprima stampa il suo nuovo I colori della passione (il cui senso è meglio espresso dal titolo originale: The mill and the cross), nelle sale italiane a partire dal prossimo 30 marzo. Lo stesso Bruegel (un sempre formidabile Rutger Hauer) è il protagonista della narrazione filmica. Impegnato a catturare frammenti di vita di alcune persone del luogo in cui vive, la sua attenzione è incentrata in particolare su figure quali la famiglia del mugnaio, due giovani amanti, un viandante, un’eretica, la gente del villaggio e, soprattutto, i cavalieri dell’Inquisizione spagnola, periodo storico (quello diegeticamente contemporaneo) nel quale il pittore vuole trasportare, figurativamente e, soprattutto, metaforicamente, il concetto di passione religiosa per rivestirlo di un significato molto più profondo e meglio radicato nell’essenza civile e politica del suo momento. Analizzando a fondo le vite e le essenze interiori di queste persone, dunque, Bruegel (ma, in sostanza, Majewski stesso attraverso il “pennello” della sua macchina da presa) vuole raffigurare, maggiormente in favore dell’amico e collezionista d’arte Nicholas Jonghelinck (Michael York) tutta la disperazione insita nell’essere costretti a vivere la repressione in corso. Ne nasce, dunque, l’idea portante: tessere una vera e propria ragnatela figurativa nella quale incastrare elementi dominanti aventi il difficilissimo compito di permettere all’occhio umano di accorgersi del vero fulcro dell’azione: una via crucis completamente abbandonata a se stessa, estremo simbolo dell’indifferenza umana verso le preziose concezioni universali.

Domanda: perché Majewski ha scelto di costruire questo film? I tre lunghi ed estenuanti anni di lavorazione (proprio come estenuante, assoluta ma dionisiaca è la pazienza spettatoriale seriamente messa alla prova da un’altra tela, quella della sala), volendo, già spiegano una parte dell’intento perfezionista di un cineasta tanto filosoficamente avanzato (malgrado l’estrema semplicità dei concetti espressi) quanto minuziosamente dedito a riflessioni puramente filmiche di notevole caratura.

Ripercorrendo, però, i fondamentali concetti espressi dalla tela originale, è proprio attraverso lo stesso procedimento tipicamente pittorico che il cineasta polacco concepisce il proprio personalissimo quadro (perché di arte figurativa vera e propria si tratta), ben consapevole delle potenzialità tecnologiche del terzo millennio (senza ignorare, però, quelle di processo digitale di un suono anch’esso drammaturgico). Una attentissima lavorazione sul fotogramma fatta di blue screen, figure umane e fondali dipinti (artefici di  una profondità di campo ai limiti dell’impossibile), dunque, contribuisce alla maturazione di una pura perfezione di dettagli e prospettive che ben conservano il senso più intrinseco della tela bruegeliana ma, proprio per questo, permettono al mezzo cinematografico di ampliare il discorso ben oltre la cornice, anzi verso estreme profondità tanto nella realtà oggettiva espressa dal dipinto quanto nell’animo di un uomo (prima ancora che artista di fondamentale importanza) saggiamente radicato in una realtà di “poveri cristi” pasoliniani (sedotti e abbandonati dal tempo e dai tempi) che sa di non poter cambiare se non con un unico spiraglio di speranza nella comprensione umana più semplice ma, proprio per questo, inarrivabile.

Potrebbe, dunque, essere proprio questa la risposta alla nostra domanda: la speranza di una comprensione collettiva nei confronti di un corso e ricorso storico eterno ed ineluttabilmente immodificabile se non unicamente per tecnologie e progressi estetici. Una comprensione derivante dall’assimilazione del concetto di arte principalmente in termini di messaggio umano (concetto ormai sconosciuto all’ombra della globalizzazione), nel quale l’unica ancora di salvezza non è, paradossalmente, l’estetica pura (a saturare la quale ci pensano già il film stesso e il quadro di riferimento: una sorta di completezza totale che vuole e deve essere smembrata, rielaborata e, dunque, finalmente compresa) ma ciò che di realmente ideologico, spirituale e non per questo meno attuabile si annidi tra le torbide tonalità quotidiane.

Stefano Gallone

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