
Lo scaffale dimenticato
Antonio Castronuovo, “Libri da ridere. La vita, i libri e il suicidio di Angelo Fortunato Formiggini”, Viterbo, Stampa Alternativa, 2004 («Margini», 57)
di Laura Dabbene
Il titolo è esplicito. Questo libretto edito da Stampa Alternativa alcuni anni or sono traccia un profilo biografico di uno degli editori più singolari che sia mai esistito in Italia, il modenese Angelo Fortunato Formíggini. Nella nota introduttiva l’autore riconosce l’impossibilità di raccontare la vita di un uomo in maniera oggettiva, senza schierarsi, senza filtrare il materiale e le notizie raccolte attraverso i propri occhi. Ciò appare tanto più vero se l’uomo di cui ci si trova a ripercorrere l’esistenza è il personaggio in questione, dotato di una personalità così bizzarra, estroversa e solare, ma nello stesso tempo segnata da una delle peggiori tragedie che l’umanità abbia dovuto fronteggiare, da indurre chiunque, biografo o lettore, a costruirsi di lui un’immagine soggettiva e personale. Ma questo, senza dubbio, era ciò che Formíggini avrebbe desiderato.
La densità e il significato di quanto si narra nel libello sono inversamente proporzionali alla sua mole. Il racconto inizia dal capolinea, dal quel “tvajol” (tovagliolo, in dialetto modenese) di terreno, ai piedi della torre della Ghirlandina di Modena, su cui atterrò il corpo di Formíggini la mattina del 29 novembre 1938.
Il suo suicidio, premeditato, studiato e lucidamente preparato, conteneva un messaggio: era l’atto di protesta contro il cancro che stava devastando l’Europa e l’Italia, il Nazifascismo, e verso l’odio antisemita esplicatosi nelle leggi razziali. Formíggini era sì ebreo, ma «modenese di sette cotte, e perciò italiano sette volte», come scrive lui stesso nell’Imitazione del Cristo (edito postumo nel 1945). Eppure non bastò questo a preservarlo dalla scure della legislazione fascista che gli tolse ciò che era sempre stato il fulcro della sua vita: la possibilità di lavorare pubblicando libri.
I volumi di Formíggini sono parte irrinunciabile della storia dell’editoria italiana del Novecento e la loro natura, il loro aspetto, il loro contenuto, sono uno specchio della sua personalità allegra ed ironica, da sempre incline allo scherzo, alla beffa, allo sberleffo, alla parodia. Per comprendere quanto questi elementi fossero fondamentali nella vita di Formiggini sono sufficienti pochi episodi: adolescente viene espulso dal Liceo Galvani di Bologna per aver composto e diffuso un poemetto satirico che trasfigura studenti e professori, la sua tesi di laurea in Giurisprudenza (apparentemente seria) fu per sua stessa ammissione «un magnifico pesce d’aprile» mentre la dissertazione con cui si laureò in Lettere e Filosofia (apparentemente uno scherzo, con quel titolo…Filosofia del ridere) è quanto di più serio egli abbia scritto per testimoniare la sua fede più profonda e assoluta nell’arma della comicità e della risata.
In 26 capitoli più una Sobria appendice, Castronuovo restituisce, con un giusto mix di spensierata allegria e mesta consapevolezza, la parabola personale e professionale di un personaggio fuori dal comune, che seppe amare la vita al punto da sacrificarla per un’idea. Le citazioni dirette dagli scritti di Formíggini abbondano e non potrebbe essere altrimenti: leggere le sue parole spiega più di mille commenti ed interpretazioni critiche il senso della sua esistenza votata interamente al mondo editoriale e librario, nonché alla resistenza verso una situazione storica e politica che stava conducendo, se stesso oltre che la sua patria, verso un’inevitabile rovina. Formíggini seppe conservare fino all’ultimo il senso dell’umorismo e dell’ironia, unica arma di battaglia e di difesa contro forze che giorno dopo giorno, mese dopo mese ed anno dopo anno lo privavano di quanto aveva faticosamente costruito: la sua casa editrice, la sua più nota pubblicazione periodica (Italia che scrive, o semplicemente ICS), la famosa Fondazione Leonardo.
Ma il Fascismo, e la follia di Mussolini, ne intaccarono anche la vita privata e la dignità, espropriandogli l’abitazione privata e in fondo spingendolo alla scelta estrema. Prima del gesto ultimo scrisse: «Crepare è il solo diritto che sia rispettato: sarebbe peccato non ne approfittare».
Non poteva sapere, lo sventurato, che neppure questo rispetto avrebbe avuto dal Regime. Del suo suicidio non si parlò se non sulla stampa straniera e a tutte le testate nazionali fu trasmesso divieto di accettare necrologi, compreso quello della vedova. Il commento che meglio sintetizza la bassezza dell’autorità politica resta quello di Achille Starace: «È morto da vero ebreo, si è gettato da una torre per risparmiare un colpo di pistola». La questura ordinò che le esequie si svolgessero di notte: solo l’ostinazione della moglie permise alle spoglie di Formíggini di sfilare verso il crematorio alla luce del giorno (anche se di primissima mattina), accompagnate da pochisimi parenti ed amici, 30 poliziotti in divisa ed altri in borghese che annotavano i nomi dei presenti. Avrebbe forse commentato, il defunto, con un sonoro «Mihi confricor», sua scherzosa latinizzazione per esprimere «Me ne frego».
Compito nostro, oggi e in futuro, tributargli il giusto rispetto.
Foto via www.fotomuseo.it; http://www.stampalternativa.it; www.culturalnews.it
Cara Laura Dabbene,
desidero ringraziarla per questa bella lettura che ha fatto del mio piccolo libriccino: lei è riuscita a penetrare nel senso che volevo assegnare alla breve narrazione della vita di Formiggini: come l’ironia può contrastare il muro della stupidità dittatoriale.
Grazie davvero e… cari auguri per il nuovo anno.
(Castronuovo, 29 dic. 2010)