“L’estate di Giacomo”: la bellezza di vite complementari

Un ragazzo e una ragazza camminano in una boscaglia d’estate cercando il fiume. Lui è sordo e l’intesa tra i due è evidente, lo sguardo degli spettatori quasi spia i due fare il bagno, divertirsi, mangiare, riposarsi. Lei, Stefania, silenziosa ma sempre presente, intensa, matura per la sua età. Lui, Giacomo, sempre chiassoso nonostante il suo handicap, giocoso, provocatore. Lei che suona la batteria mentre lui canta a squarciagola, e poi piano e poi forte, di nuovo. Due ragazzi, insieme, camminano tra le giostre e ci salgono su, si abbracciano per un attimo e ridono, tutto è pieno di rumore e di suoni e di musiche, che Giacomo non può ascoltare o quasi.

La musica è ovunque, nell’i-pod «del cazzo» di lei, alle giostre, nel salone di casa, quando lei balla ascoltando un pezzo bellissimo e poi come sottofondo durante un concerto, mentre ballano insieme, prima dei fuochi d’artificio. La musica, i suoni delle cose scandiscono e danno il ritmo alla vita ma non per Giacomo, che non può distinguere tra il rumore del mare e quello del vento. E quando si rischia di perdere il ritmo si ha bisogno di una persona che ti aiuti a seguirlo. Il suono spaesato, giocoso, noioso, matto, felice della vita di un ragazzo.

Due ragazzi che si tirano la sabbia. Due ragazzi che si sfiorano. Due ragazzi. Come tutti lo siamo stati in quegli anni lì, subito dopo la fine delle scuole superiori. Come quando pochi centimetri tra le dita e una schiena potevano cambiare la vita intera. Come quando le parole non erano importanti. Come quando, a ricordarlo poi, quel tempo passato con quella persona ci aveva fatto essere felici davvero e aveva cambiato le nostre vite, ancor prima del primo amore. Come quando la felicità era nelle piccole cose.

L’estate di Giacomo, esordio alla regia di Alessandro Comodin, è una perla che non dovrebbe mancare di essere ammirata da chiunque. Un climax emozionale con i primi quindici minuti quasi soporiferi in cui i due protagonisti cercano, per infine trovarlo, il posto perfetto per le loro giornate d’estate, la loro spiaggia isolata sul fiume. Una regia presente, mobile, probabilmente spiazzante per molti, per il continuo uso della camera a mano. I primi piani eccessivi, prolungati, estenuanti ma emozionanti nei momenti necessari, richiamano alle opere del più famoso collega Gus Van Sant, in particolare Paranoid Park. Ma se lì i primi piani, accentuati anche dal rallenty, mostravano una malizia e un malessere di fondo, comunicando una sorta d’assenza di futuro per i ragazzi, qui le emozioni intrappolate nella macchina da presa sono principalmente quelle della speranza, della dolcezza, della sottile linea tra batticuore e gioia. E un’atmosfera poetica da Nouvelle Vague, prolungata nei lunghi piani-sequenza, intima.

Lo spettatore assiste per lungo tempo ai giochi, al divertimento, agli imbarazzi, alle emozioni, accompagnato da una bellissima colonna sonora. E il sesso è descritto, in pochi attimi, con un abbraccio, una fronte corrugata, con poche parole, quelle giuste della sceneggiatura. Pensare di poter scrivere di più di questa piccola gemma da conservare e rispolverare ad ogni occasione è difficile. Resta la bellezza di un’opera prima poetica, spontanea, sensibile, gentile. In fondo si parla di adolescenza, e di una fase bellissima della vita, delle difficoltà, delle scoperte, della felicità, ad un concerto, alle giostre, in quel pomeriggio in casa insieme facendo niente, su una spiaggia assolata. Di due ragazzi. Un’estate.

Gian Piero Bruno

@GianFou

[youtube]http://youtu.be/Dl41ciSwLps[/youtube]

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