
La vita delle prostitute di Bani Shanta, il “villaggio del sesso” bengalese
Dacca – Duecentomila prostitute in un paese che conta più di 150 milioni di abitanti possono sembrare una goccia in un oceano sterminato, com’è l’Oceano Indiano che bagna le sue coste, ma il fenomeno della prostituzione in Bangladesh merita la massima attenzione, per comprendere e analizzare quello che è un vero e proprio mercato, sul quale nessuno, tanto meno i governi di Dacca, hanno mai voluto (e potuto) agire.
Il viaggio all’interno di questa realtà parte dal bordello di Bani Shanta, una piccola isola nel distretto di Faridpur, una delle divisioni amministrative nelle quali è organizzato il paese del sud-est asiatico. Qui, in un’area di appena 1 kmq, sono stipate novanta donne, professioniste del sesso, pronte a soddisfare le richieste degli uomini (la composizione della clientela è eterogenea, e va dai turisti ai lavoratori portuali) per prezzi miseri: per quindici minuti d’amore, le lavoratrici chiedono da uno a tre euro, mentre una notte intera di passione può costare al massimo 1.500 taka, la moneta locale, che corrispondono a quindici euro.
Messe in bella mostra in una sorta di vetrina, che corrisponde alla strada che costeggia l’intero complesso, le donne vengono scelte dai clienti, i quali sono poi accompagnati in ciascuno dei piccoli locali dove le prostitute non solo esercitano la professione, ma spesso vivono, sole o con i figli, in condizioni igieniche estremamente precarie.
Le peripatetiche, però, non ottengono quasi mai l’intera somma che i clienti versano loro al termine della prestazione, poiché tutto è controllato con un’attenzione maniacale da chi, nei fatti, dirige il complesso. Invece di matrona, il nome della tenutaria del bordello in lingua bengalese è sardarnis, lettere quasi musicali che non lasciano presagire la crudeltà di queste donne.
Le “impiegate” sono infatti divise in due categorie: le prime, sono quelle che praticano la prostituzione per lavoro, al fine di mantenere la famiglia e i figli, mentre le seconde, che prendono il nome di “chukri”, sono delle senza famiglia: vendute dalle madri in età giovanissima alla sardarnis, lavorano senza guadagno, dacché tutti i soldi finiscono nelle tasche della direttrice del postribolo.
Il denaro guadagnato, inoltre, non è quasi mai accantonato, ma serve – come nel caso del bordello di Daulatdia – a pagare l’affitto del proprio locale di lavoro/appartamento e tutte le spese ad esso correlate, proprio come in un’esistenza normale, benché questa sia agli antipodi della normalità.
Mentre le donne sono impegnate, spesso giorno e notte, nella loro attività, i figli hanno un trattamento sostanzialmente opposto, per certi versi vicino ai livelli occidentali, seppure nello squallore di un villaggio del sesso.
A Daulatdia, in un quartiere di un’altra sterminata città del sesso, sorge una scuola frequentata unicamente dai figli delle prostitute, dove i bambini prima, e i ragazzi poi, vengono istruiti secondo i canoni standard dell’istruzione, ma anche attraverso l’impartizione di discipline artistiche quali la danza. Un sorso di normalità, in un calice dove tutto è amaro, come le medicine che le donne sono costrette a prendere sin dalla più giovane età.
Undici, dodici anni, ma a volte anche dieci. A quest’età, le giovani meretrici vengono riempite con un medicinale dal nome quasi impronunciabile: oradexon. Questo glucocorticoide, il cui nome scientifico è dexametasone, è noto per le capacità anti-infiammatorie e corticosteroidee, ma soprattutto per l’uso veterinario, in particolare sui cani e sui cavalli, per la cura delle infezioni e delle distorsioni muscolari. Adoperato in dosi massicce negli umani, invece, perde la sua caratteristica benefica e diventa un potente strumento per aumentare la massa corporea delle donne, che diventano così più appetibili secondo la cultura bengalese.
Oltre all’aumento di peso, però, le controindicazioni riempiono una lista enorme: ulcere gastrointestinali, insufficienza cardiaca, ipertensione, diabete mellito, tubercolosi, glaucoma e osteoporosi. Ciononostante, oltre 9 prostitute su 10 ricevono questo medicinale, spesso chiamato “pillola delle mucche”, e non possono opporsi, in quanto viene obbligatoriamente fatto assumere dalle sardarnis.
In tutto questo, la possibilità di fuggire dalla vita di prostituta è praticamente impossibile. Tramite uno strumento simil-giudirico che ricalca l’istituto dell’affidavit, comune nel diritto di ispirazione britannica, infatti, alle donne viene fatto giurare dinanzi ad un ufficiale pubblico di non essere in grado di svolgere altri lavori al di fuori della prostituzione, ed essendo l’affidavit un vero e proprio giuramento, non può essere ritrattato, e dunque i suoi effetti non decadono, incatenando le vittime del mercato del sesso per sempre.
Il Bangladesh, così come il Vietnam, il Brasile, la Thailandia e numerosi altri stati in via di sviluppo, soffre la piaga del turismo sessuale, che è uno dei principali canali di sostentamento di questi luoghi dediti alla prostituzione. Contro questo fenomeno, codificato nel 1996 dalla dichiarazione di Stoccolma come “Sfruttamento sessuale commerciale dei minori”, è impegnata dal 1990 l’onlus Ecpat (End Child Prostitution, Pornography and Trafficking), che opera in più di 70 paesi sparsi per il mondo intero al fine di ridurre la prostituzione minorile, che differisce dai fenomeni di violenza e abuso – proprio secondo la dichiarazione di Stoccolma – perché, sebbene retribuita, costituisce una sistematica e volontaria violazione dei diritti dell’infanzia.
Nonostante gli sforzi delle associazioni no-profit, e nonostante anche l’impegno dei governi per reprimere fenomeni incontrollabili, la prostituzione – e in particolare quella minorile – sono sempre più diffusi, e minano alla stabilità del mondo, incidendo sull’infanzia, cardine e futuro della società, e il Bangladesh, purtroppo, è un pessimo maestro in tal senso.
Stefano Maria Meconi
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