
La stanza della memoria
Quale sentimento, quale reazione chimica, quale scintilla spinge un appassionato a rimettere piede in quel paese dei balocchi che equivale alla sua camera tappezzata di armadi e cassettiere zeppe di cibo per occhi ed orecchie, sano mix da nouvelle cuisine a base di vinile, nastro magnetico e codice binario per supporti ottici? Probabilmente il fabbisogno giornaliero di nutrimento interiore, al pari di un piatto di pasta o di una bistecca succosa per pranzo. O forse il fondamentale desiderio (almeno questo più che realizzabile) di toccare di nuovo con mano ciò che rappresenta un frammento di vita, un tassello di memoria passata ma sopravvissuta allo scopo di mantenere vive certe sensazioni, certe percezioni per la paura di non riuscire a provarle più per i secoli dei secoli? Entrambe le opzioni, si direbbe. E allora largo alle reminescenze di esperienze inimitabili al tocco di (non solo) oggetti che han significato qualcosa per la nostra personalità, all’insegna delle capacità umane di visione soprannaturale tipiche del Bruce Willis di Unbreakable, il supereroe inconsapevole che riusciva a leggere nell’anima della gente al solo tatto somatico. Cosa inizierà a trasportare, allora, i nostri sensi in un universo parallelo alla cruda realtà quotidiana? Prego, signori, entrate pure, accomodatevi. Questo è il nostro piccolo ma funzionale regno.
1999. La fine di un’era, probabilmente. L’attesa per l’avvento di un nuovo millennio, l’incipit di un film umano fatto di nuove speranze, nuovi desideri, distruzione reale di vita vecchia per una vita nuova, qualunque essa sia. Ebbene, nel marasma di sentimenti positivi (“millennium bug” e previsioni apocalittiche dell’ultima ora a parte), esce un disco. The fragile è il suo titolo. I Nine Inch Nails ne sono gli artefici. Trent Reznor ne è il capostipite assoluto, la mentre creativa tanto versatile quanto ossessionata da una modernità troppo disumanizzante per i gusti di una persona (prima ancora di un artista che definire “geniale” equivale addirittura a sminuire) dotata ancora di quella caratteristica ormai di raro riscontro, neanche fosse una pietra preziosa o chissà quale reperto da museo di valore universale: la sensibilità. Come esprimere un così difficile sentimento e, soprattutto, la propria opinione in merito per tramite dello stile a cui si fa riferimento da una quindicina di anni a questa parte? Risposta: con il frastuono, con il cocktail letale di hard rock, metal ed elettronica al limite della perfezione disumana (l’industrial di scuola Ministry). Ma attenzione: anche con il desiderio di innalzarsi dalla superficie materiale delle cose, rimanendo in uno stato di eterea fluttuazione tra superficie ed infinito interiore. Come raggiungere un simile limbo? Domanda, forse, ancora senza risposta.
Allora un doppio disco (triplo vinile) non basta, è incompleto pur nella sua ciclica perfezione. C’è bisogno di altro. C’è bisogno di più. C’è bisogno di un Things falling apart (2000) che permetta di includere versioni alternative, remix e inediti che non si è riusciti ad inglobare in un’opera pur mastodontica e di millesimale precisione. Ma non basta ancora. C’è bisogno di andare in tour, di imbrattarsi faccia e corpo di fango e grasso per dare l’idea di cosa si vuole dire davvero, di sfasciare tastiere e chitarre in ogni tappa per appagare la fame di elettroni esorcizzanti, di contrastare la rabbia e la delusione circostante con qualcosa che non dia solo sfogo ad uso di sostanze o residui etilici (sostanzialmente incapaci di estirpare la radice del dramma vissuto). E allora la chiave dell’enigma arriva da sé: archiviare l’esperienza distruttiva del palcoscenico in un live ufficiale (And all that could have been, 2002: preferibilmente la versione in doppio dvd per meglio rendere l’etica dei fatti, se di etica si può ancora parlare), per poi chiudere il vero ciclo di esperienze trascendenti con la pubblicazione di una sua stessa edizione limitata (un doppio cd ora praticamente introvabile) che contenga una vera e propria pietra preziosa, un piccolo capolavoro assoluto di empatia post pentagramma: Still, ovvero il punto di arrivo del kubrickiano viaggio verso Giove originato dal tatto dell’emblematica ed impenetrabile copertina di The Fragile.
La reale natura di un simile esperimento non è mai stata limpidamente chiara, probabilmente, neanche alle personalità più vicine a Reznor nel corso dei cinque anni di preparazione del doppio capolavoro di partenza, tempi tanto vicini alla fine di un individuo quanto necessari (ahimé) per quella sorta di trapasso (dis)umano che è la perdita di un qualunque punto di riferimento, la dissezione del sé, il frantumarsi progressivo delle presunte barriere protettive di quella che si definirebbe emotività. Non è affatto un caso, allora, se da Fragile, contenente, di suo, ben 23 brani (tutti incredibilmente perfetti), sono rimasti fuori altrettanti brani di altrettanta potenza esplicita. Molti di questi sono stati riversati in dischi successivi, altri sono tuttora inediti. I migliori, però, risiedono fra le tracce di Still, assieme a brani trascorsi e appositamente decontestualizzati dalla loro origine per entrare di diritto a far parte del corpus mancante alla quadratura del cerchio acusticamente emotivo.
Non è un caso se il sipario del quarto ed ultimo atto della sciamanica possessione iniziata col “left cd” di Fragile venga aperto dalla struggente Something I can never have dell’esordiente Pretty hate machine (1989), già di per sé una forte scossa alle vibrazioni extrasensoriali, qui riproposta per soli pianoforte e voce (fatta eccezione per piccoli spunti di chitarra acustica). E non è un caso se, nel nome dell’apocalisse umana della perdita e della distruzione interiore, contribuiscono anche versioni acustiche del brano omonimo The fragile e del grido d’allarme The day the world went away. Il vero senso della definitiva operazione reznoriana, però, sta nell’oscurità di composizioni minimali per corde straziate del calibro di Adrift and at peace e Gone, still, passando per interludi graffianti (pur nella loro semplicità oggettiva) come And all that could have been (evidente il senso di continuità concettuale) e The persistence of loss, per sfociare, infine, in quella che, con estrema certezza, è in assoluto la composizione più incredibile, straziante, lacerante, avvolgente e commovente dell’intera produzione di “mr. Self Destruct”: stiamo parlando di Leaving hope, un vero e proprio inno strumentale al desiderio di allontanarsi da ciò che si è stati, da quel “somewhat damaged” iniziale, da ciò che si è vissuto con una consapevolezza differente da quella attuale, forti di una “speranza lasciata” ma, nella sostanza, rinnovata nel desiderio melodico ed evanescente di oltrepassare le nubi del pensiero corrente. In realtà non esistono parole per poter descrivere un capolavoro di tale portata. Si può solo constatare e, soprattutto, vivere (!) il tatto e la delicatezza di un apparente “mostro” da autoflagellazione in reale ed eterna ricerca di sensazioni autoctone.
Dopo il trittico The Fragile / Things falling apart / Still (praticamente un unico disco quadruplo con un inizio, uno svolgimento e una chissà quanto definitiva fine), dunque, niente sarà più come prima (tanto nella vita quanto nella discografia NIN), niente permetterà più di tornare indietro, proprio come accade inesorabilmente quando si attraversa un periodo traumatico dal quale uscire (presto o tardi) rinnovati e meglio consapevoli dei propri limiti, dei propri difetti, delle proprie incapacità esistenziali…delle proprie fragilità, appunto.
Stefano Gallone