
Il figlio più piccolo, la purezza e la vulnerabilità dell’innocenza
Pupi Avati torna sul grande schermo con un film sul malcostume della classe dirigente italiana e sull’inguaribile ingenuità dei puri di cuore
di Daniela Dioguardi
Bologna, 1992. Luciano Baietti (Christian De Sica), piccolo e ambizioso imprenditore, sposa finalmente Fiamma (Laura Morante), donna ingenua e innamorata da cui ha già avuto due figli: il maggiore Paolo e Baldo. Nel giorno stesso del suo matrimonio, Luciano perfeziona le pratiche per il trasferimento a suo nome delle proprietà immobiliari della neomoglie e scompare in compagnia di un grigio contabile, tale Sergio Bollino (Luca Zingaretti), appena uscito dal seminario dopo le accuse di coinvolgimento in affari sporchi.
Anni dopo, ai giorni nostri, Luciano è presidente della Baietti Enterprise una holding molto potente, con sede nella campagna laziale, edificata e mandata avanti sulla base di raccomandazioni, ricatti e connivenze politiche, sotto la supervisione dell’inscalfibile Sergio che dell’esperienza seminariale ha conservato solo i sandali da francescano da cui non si separa mai. Gli affari, per la società, iniziano a vacillare e urge più che mai un’inattaccabile copertura politica: neanche il matrimonio con una ricca donna romana politicamente in vista pare bastare allo scopo. Allora non resta che ricorrere all’inganno. L’unica strada praticabile per evitare il collasso e la galera è quella di scaricare la responsabilità per debiti (di un ammontare incalcolabile) su un prestanome sufficientemente ingenuo e inesperto da non muovere alcuna resistenza. E il pensiero di Sergio corre immediatamente alla prima famiglia di Luciano, abbandonata quasi sul lastrico anni prima, e si posa sul giovane Baldo (Nicola Nocella), ormai ventenne, di indole buona e profondamente generosa. Il ragazzo studia cinema e divide le sue giornate fra film, amori immaginati e sua madre Fiamma, emotivamente fragile dopo la partenza di Luciano, con cui condivide, nonostante tutto, il mito del padre.
Quando Luciano tornerà prepotentemente nella vita di Baldo, chiedendogli di fargli da testimone di nozze, appellandosi a sentimenti non coltivati e a pentimenti mai avvenuti, immensa sarà la gioia di madre e figlio tanto quanto il guaio in cui si cacceranno.
Pupi Avati torna sul grande schermo con una pellicola a metà strada fra dramma e commedia in cui, ancora una volta, non smentisce il suo spirito fanciullesco e sognatore che lo porta ad approfondire spesso personaggi ingenui ed emotivamente disarmati ( si pensi, ad esempio, a Il cuore altrove, La seconda notte di nozze e Il papà di Giovanna). Tuttavia, è la prima volta che il regista bolognese va a cercare il confronto con una tematica tanto gettonata quanto irrisolta quale quella della decadenza dei costumi della nostra società. In particolare, Avati risolve il quadro dell’Italia attuale in un contrasto fondamentalmente insanabile fra volgari e corrotti impostori e candidi, eterni sognatori, che sfocia nell’impunità per gli uni e nell’incapacità di rapportarsi alla realtà per gli altri.
Se lo spunto narrativo può definirsi interessante e decisamente più innovativo rispetto a quello dei lavori più recenti, c’è, però, da sottolineare che la messa in scena del cineasta, composta, sommessa e a tratti inibita, mal si concilia con l’intento corrosivo e accusatorio del film.
L’impressione più vivace, tra l’altro, è quella che Avati non si ponga con rabbia nei confronti dei suoi loschi
personaggi ma si impegni a voler recuperare la loro dimensione umana la quale riemerge ma rimane, comunque, incapace di rivelarsi sul piano pratico. Così lo spettatore viene posto dinanzi a dei “cattivi” che, messi alle strette dalle circostanze, si ricordano di avere un cuore con cui, però, difficilmente riescono a convivere.
Sul piano strettamente tecnico Il figlio più piccolo risulta criticabile in più punti (si pensi al ricorrente auto-doppiaggio degli attori, ai desueti green screen automobilistici e a diversi primi piani sfocati) ma appare vincente per quel che riguarda la scelta e la direzione attoriale.
Ritroviamo, infatti, un eccellente Christian De Sica, nel suo ruolo di padre–imprenditore senza scrupoli, tornato finalmente al “mestiere dell’attore” anche se, forse, ormai incapace di svincolarsi totalmente dal personaggio guascone e fanfarone a cui ci ha abituati nei cinepanettoni. Accanto a lui una sempre brava Laura Morante, un impeccabile Luca Zingaretti e un sorprendente esordiente come Nicola Nocella.
Insomma, ammirevole risulta l’intento di Pupi Avati nel voler mettere la sua arte a disposizione di un tema scottante come il malcostume italiano, ma il suo sguardo si rivela fin troppo dimesso e bonario per una questione così terribilmente squalificante. Tuttavia c’è da chiedersi se una soluzione più graffiante avrebbe avuto un effetto più dirompente, soprattutto in considerazione del fatto che la società italiana (o per lo meno la sua maggioranza) appare così indifferente (affezionata?) all’arrivismo e alla volgarità che sembra quasi inutile anche solo tentare di cambiarle le cose. E allora, è proprio il caso di dirlo, che ognuno abbia quello che si merita.
…che ognuno abbia quello che si merita…. Ben detto!!!
Bell’articolo….Complimenti!!!