
Hereafter: andare oltre per scoprire il presente
Non smette mai di stupire, il caro vecchio Clint Eastwood, o quantomeno non rinuncia, ancora una volta, ad avvolgere lo spettatore con braccia paterne e solidali da detentore (tutt’altro che presuntuoso) di verità condivisibili non tanto in ambito di dottrine spirituali unidirezionali quanto nei confronti dell’essere umano in sé, inteso come entità sensibile e dotata di capacità critica riguardo la scelta del proprio personale divenire. Docilmente steso su carta da un ottimo Peter Morgan (già apprezzato per Frost/Nixon – Il duello di Ron Howard, The Queen di Stephen Frears e il recente I due presidenti di Richard Loncraine), la scelta del metodo narrativo, come accadde, per il regista, anche con Changeling o il ben più datato I ponti di Madison County, eleva a protagonista una delicatezza tale da riuscire ad affrontare argomenti di devastante potenza con un garbo necessario, fatta eccezione per alcune sequenze talmente crude da far percepire un realismo ai limiti del sostenibile ma pienamente giustificabile dato il gioco emotivo in questione. Se un Inarritu, dunque, con simili strutture, riesce a toccare in maniera comparabile le corde dell’anima scuotendole fino all’insopportabilmente condivisibile, il buon Clint riesce a mantenere un criterio di libertà fondamentale per non prendere posizioni particolari e, di conseguenza, lasciare che il destinatario audiovisivo tragga le proprie conclusioni seppur in luce di qualche fugace suggerimento.
Tre storie sono legate da un unico filo conduttore, dunque: l’intensa relazione con il concetto di “post mortem”. La bella Marie Lelay (Cécile de France), giornalista francese, sopravvive miracolosamente ad uno tsunami ma, una volta rientrata a Parigi, comincia seriemante ad interrogarsi circa le visioni avute nei momenti precedenti al suo riprendersi dalla tragedia. Marcus (Frankie McLaren) è un ragazzino londinese al quale il fato ha donato una madre alcolista e tossicodipendente e portato via il fratello gemello, tragicamente investito da un’automobile, del quale non riesce a fare a meno per il ricevuto sostegno morale e spirituale di preponderante forza ed importanza. George Lonegan (Matt Damon), invece, è un ex sensitivo ritiratosi a vita comune per assuefazione da profondo e duraturo contatto effettivo con l’oltretomba, deciso a ripudiare, dunque, quello che non ha mai considerato essere un “dono” ed invogliato ad una pur non semplice stabilità terrena per mezzo della bella Melanie (Bryce Dallas Howard). Un unico legame di profondo e sentito disagio interiore riguardo il rapporto con se stessi e con il proprio senso di dolore e solitudine, porterà i tre soggetti ad un incontro reciproco, grazie al quale ognuno di loro riuscirà a trovare un bagliore di risposta alle domande esistenziali più trascendenti eppure così inevitabilmente umane.
Hereafter affronta temi delicatissimi, utilizzando come sempre (facendone una sorta di trampolino di lancio) un tema prediletto (l’esperienza paranormale a cavallo tra la vita e la morte nelle sue diverse sfaccettature) per elevarlo a sottospecie di “mcguffin” da comun denominatore per condizioni umane altre, ben più viscerali, intime e legate, sostanzialmente, ad esperienze di vita terrena presente. Stando a ciò che il film racconta, sembrerebbe un accenno di paradosso narrativo. Fatto sta che la consinstenza effettiva delle oltre due ore di riflessione che il vecchio Clint offre soltanto a chi davvero vuole recepire il messaggio consta di un primordiale discorso di percettibilità interiore a sfondo tristemente negativo, al solo scopo, forse, di provare ad afferrare il senso originario della motivazione che spinge gli esseri umani ad andare oltre il conoscibile per vedere se è ancora possibile scovare porte aperte sulla possibilità di attribuzione di senso compiuto alla propria esistenza. Le solite e fatidiche tre domande (chi siamo, da dove veniamo e dove siamo diretti?) vengono, in qualche modo, ribaltate di senso, prelevate e trapiantate in ambiti tangibili, realmente esistenti e verificabili, come recepibili sono i più semplici scopi che fanno della necessità di interrelazione umana uno dei principi fondamentali della venuta al mondo. È l’essere umano in sè ad essere messo in gioco, non tanto il suo lato sovrannaturale se non esclusivamente in qualità di fattore aggiuntivo necessario per l’autorigenerarsi di una forza morale nel difficile gioco dell’adattabilità alla realtà circostante. Se da una parte, allora, un bambino concepisce lo standard comune di “aldilà” tipico dell’opinine pubblica contemporanea per ritrovare un punto di riferimento esistenziale di fondamentale importanza, dall’altra c’è chi di un simile discorso ne ha subito l’ossessione scatenante il desiderio di una verginità tutta terrena e condivisibile, forse, solo con chi un simile dolore (sovrannaturale tramutato in reale) lo affronta in maniera positiva come nella consapevolezza dell’esistenza di un proseguimento innestabile solo su di un cammino già intrapreso.
La semplice forza di volontà, sembra voler dire Clint, porta al riscoprire la potenza di se stessi e a comprendere, una volta per tutte, che, nella più totale indecisione circa il futuro del nostro essere al mondo, vivere ciò che c’è da vivere qui ed ora è la strada più giusta da percorrere senza mai voltarsi indietro.
Stefano Gallone