Festival del Film di Roma – Aspira al premio l’iraniano ‘Acrid’, brilla Moroni

Acrid, presentato al festival del film di roma

La locandina del film “Acrid”

Con l’avvicinarsi alla conclusione della quarta giornata dell’ottava edizione del Festival del Film di Roma, si potrebbe, volendo, già azzardare un primissimo giudizio complessivo. Certo, non siamo neanche a metà dell’opera, ma sembra apparire già con una certa chiarezza un barlume di filo conduttore in molte delle pellicole fin ora da noi visionate con attenzione.

Se nei turni scorsi film in concorso come I’m not him di Tayfun Pirselimoglu, Manto acuifero di Michael Rowe, il capolavoro Her di Spike Jonze, ma anche il colossal coreano più costoso di sempre Snowpiercer di Bong Joon-Ho (fuori concorso) e lo splendido Dallas Buyers Club di Jean-Marc Vallée, avevano un po’ tracciato il territorio tematico più che stilistico su concetti come solitudine, senso di abbandono e desiderio di recupero interiore (è consuetudine di un festival che si rispetti proporre una gamma di variazioni quanto più eterogenee possibili), questa quarta giornata prosegue il cammino intrapreso in maniera classificabile come più che buona.

Sono stati presentati in concorso, infatti, altri film di notevole spessore e importanza. Il primo, sia in ordine cronologico che qualitativo, è senza ombra di dubbio l’iraniano Acrid di Kiarash Asadizadeh. Tra la semplicità di una messa in scena minimale e una struttura linguistica comunque lineare e sintatticamente regolare, Asadizadeh espone uno stupefacente affresco sul legame indissolubile tra l’essere umano in sé e la costante compagnia di quel disamore reciproco che rischia di diventare l’unica via per una liberazione chissà da cosa e, soprattutto, a quale scopo e per assecondare quale funzione. Asadizadeh ci illude di riconoscere nei suoi primi due personaggi dei protagonisti di una qualsivoglia vicenda, salvo poi passare il testimone a sempre nuove figure in perpetua esplorazione tra i meandri delle reciproche problematiche familiari.

Al centro di un vero e proprio processo, viene messa sotto accusa l’incapacità individuale di mantenere viva una qualunque forma di affetto nei confronti dei propri cari. Sia chiaro, il giudizio di Asadizadeh non sembra affatto essere freddo e spietato ad ogni costo, anzi pare riuscire quasi a percepire una continua carezza di comprensiva compassione, seppur con la consapevolezza che ormai non ci sia più nulla da fare per colmare il vuoto esistenziale generato e mai corretto. Ed ecco allora che il cuore dello spettatore diventa un vero e proprio testimone passato di vita in vita, a partire da una coppia di mezza età in crisi per un comportamento irresponsabile di lui, passando per il disagio matrimoniale di una persona a lui legata, fino a giungere alla di loro figlia (non senza considerare una sua insegnante) nel pieno di un grande amore amaramente disilluso. Se in alcuni frangenti regna il silenzio e la noncuranza forzata, in altri resta in vigore il rancore scaturito dal non riuscire o non saper far fronte alle pur normali incomprensioni interpersonali.

Acrid è sicuramente annoverabile fra le due o tre pellicole migliori del festival visionate in sala almeno fino a questo momento, posizione che invece Sorrow and joy del danese Nils Malmros non raggiunge per difetti di sceneggiatura e predisposizione attoriale. Narrando il profondo dramma che, nell’inverno del 1984, il giovane regista Johannes (Jakob Cedergren) si ritrova a dover affrontare, Malmros (confessa in conferenza stampa) sceglie di raccontare una storia realmente da lui vissuta e riferita, nella sostanza, a quando la moglie, qui interpretata dalla pur brava Helle Fagralid, in preda ad un graduale e non considerato crescendo di depressione e schizofrenia, sgozza letteralmente la figlioletta di nove mesi. Cercando di elaborare l’orribile lutto, dunque, Jakob/Nils si ritrova a ripensare e riconsiderare tutta la sua vita matrimoniale alla ricerca di quei tasselli scomposti e frammentati ma fondamentali per considerare se stesso come una sorta di complice spirituale di un simile e terrificante delitto. Seguendo le parole sincere e profonde di Malmros, viene davvero da rammaricarsi per aver assistito ad una pellicola estremamente sentita per via del metalinguaggio esistenziale che propone, eppure, almeno in prima apparenza, dissestata da mancanze narrative che, probabilmente, avrebbero avuto una loro concreta giustificazione con l’utilizzo di stili e linguaggi ben differenti. Un lavoro imponente, quindi, ma fallimentare per inadempienza stilistica.

Festival del film di roma

Mark Manaloro sul set di “Se chiudo gli occhi non sono più qui”

Infine, più di un occhio di riguardo, almeno oggi, non può non andare alla sempre poco considerata sezione “giovanile” Alice Nella Città, per il cui concorso ha avuto luogo la proiezione del nuovo travagliato ma da molti atteso film di Vittorio Moroni, a detta dello scrivente uno dei migliori registi e, soprattutto, sceneggiatori italiani viventi. Tra le solite mille incomprensibili difficoltà proprie del portare alla luce del sole i migliori progetti di questo sciagurato e folle paese, Moroni è riuscito ancora una volta a sopportare il peso francamente irritante di una gestazione di quattro lunghissimi anni spesi a ricercare fondi e mezzi per mettere in piedi quello che, a tutti gli effetti, è indiscutibilmente un film bellissimo. Se chiudo gli occhi non sono più qui, infatti, sulla scia degli esordi di quel gioiello che fu Tu devi essere il lupo del 2005, fa sorgere una sincera domanda: a che serve applaudire per interminabili minuti se poi si torna a casa sempre e comunque inconsapevoli di aver avuto a che fare con uno dei pochi veri geni narrativi dello stivale? Sulla bocca di tutti, Moroni sembra sempre essere il “giovane promettente” da dieci anni e più.

Crediamo sia il caso di finirla qui con le stupidaggini e concedere a questo enorme e sconfinato talento di fare letteralmente ciò che vuole senza alcuna limitazione economica né di mezzi, portando poi, naturalmente, ogni suo singolo prodotto alla portata visiva di tutti. Quanto a quella meraviglia di film di formazione che, ancora una volta, Moroni ha voluto regalarci con tutta l’anima disponibile per farne tesoro, ci ritroviamo di fronte alla storia di Kiko (Mark Manaloto) adolescente filippino ma orfano di padre italiano. Assieme alla madre Marilou (Hazel Morillo), il giovane vive in Friuli con il ricordo del vero padre Jacopo (Ignazio Oliva) ma in presenza del compagno della madre Ennio (Beppe Fiorello) che lo costringe a lavorare con lui in cantiere e a rinunciare alla scuola e ad una normale vita da adolescente quale è. L’incontro non così casuale con Ettore (un Giorgio Colangeli perfetto) gli permetterà di maturare una coscienza propria al di fuori delle imposizioni della vita circostante, digerendo “con filosofia” veramente tutto quello che la sua condizione impone, incluso un terribile segreto da metabolizzare per trovare ancora un senso nelle proprie azioni.

Intenso, profondo più di una grossa ferita da taglio, il film di Moroni è un’opera estremamente sentita e sincera, assolutamente mai banale laddove chiunque altro sarebbe inciampato in retorica e facili conclusioni. A buon rendere nei secoli dei secoli. E che sia chiaro una volta per tutte.

(Foto: movieplayer.it / filmtv.it / flickr.com)

Stefano Gallone

@SteGallone

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