Euro 2012: non solo calcio. La Polonia e il cinema d’autore

Krzysztof Kieslowski

Come impiegare il tempo nell’attesa tra una partita e l’altra? Noi italiani, calciofili per eccellenza fino all’estrema unzione, siamo da sempre ben abituati (forse anche a livello da insegnamento altrui) ad ammazzare i momenti “morti” con ottime e creative chiacchiere da bar (almeno quando non scegliamo di formare una gang imbrattamuri o tirapugni da curva diroccata). «Che ne pensi di Zeman alla Roma dopo tanti anni?», «Palacio all’Inter farà faville come il Milito della Champions?», oppure «Ma la Spagna, con la difesa a tre di Prandelli, ci farà o no un deretano grosso quanto un albergo?». E via discorrendo. Un ottimo professore de La Sapienza sentenziava: «Puoi avere anche tre lauree ma se non ti appassioni di sport, beh, come fai a svagarti nella vita?». Dal momento che Wake Up News ribadisce la necessaria condivisione di passioni ed intenti con i suoi amatissimi lettori, da sempre giudicati pane culturale in quanto possibilità di confronto, scambio di opinioni e (perché no) giusta causa di reciproco insegnamento, perché non provare a dare credito, dunque, alla possibilità, tutt’altro che remota (anzi!) di espatriare momentaneamente dall’ambito puramente calcistico in direzione artisticamente analitica.

Di Polonia e Ucraina si parla tanto, in questi giorni, quasi esclusivamente a livello sportivo (giustamente, per carità) o socio-politico (vedi il caso della bufala-non bufala dei cani randagi o dell’emarginazione su emarginazione delle classi periferiche meno abbienti). Ma proviamo un attimo a sederci comunque al tavolino di un bar con una buona birra davanti, scegliendo, però, di sostituire alla discussione calcistico-popolana uno scambio di opinioni di diretta provenienza intellettuale.

Azzardo, si dirà. Sarà anche vero, ma appare abbastanza grossolano non rimembrare come almeno una delle due nazioni ospitanti, la Polonia, a livello artisticamente cinematografico (nel senso più profondo del concetto) vanta una storia e una tradizione autoriale non indifferente e molto seguita (spesso con invidia) da una larghissima fetta del contesto intellettuale europeo.

Primo su tutti, non può non risalire alla nostra pur soffice memoria il genio di Roman Polanski, nato, si, a Parigi (il 18 agosto 1933) e, di conseguenza, naturalizzato francese, ma proveniente da padre ebreo polacco e madre russa. La sua storia è fin troppo nota e, talvolta, anche troppo sovrastata dai ben più pubblici fatti di cronaca, a partire dalla cruenta uccisione della consorte, Sharon Tate, avvenuta nel periodo di stabilimento statunitense in quel di Los Angeles per mano dei folli seguaci di Charles Manson nella triste notte del 9 agosto del 1969, fino ad arrivare alle ancora attive accuse di molestie sessuali su di una tredicenne (l’accusa precisa era «violenza sessuale con ausilio di sostanze stupefacenti») che lo costrinse al rientro in Europa prima in Inghilterra e poi in Francia per evitare l’estradizione britannica. Pertanto, spesso ci si dimentica di trovarsi di fronte, malgrado tutto e, principalmente in un contesto ben diverso come, appunto, quello cinematografico, ad un vero e proprio genio visivo e tematico, ad un puro artefice di coraggio artistico dotato di una longevità davvero con pochi precedenti. Era il 1968 quando Polanski, infatti, portava sul grande schermo il suo capolavoro ufficiale, Rosemary’s baby, pellicola che riuscì a far accapponare la pelle sia per le tematiche affrontate (nella sostanza il male insito nell’essere umano, qualunque sia la sua origine, il suo punto di vista o posizione sociale), sia per le successive riflessioni in termini quasi profetici, se non proprio accusati di complicità, per quanto riguarda i terribili fatti dell’anno successivo. Non sono, però, da meno, altre pellicole di fondamentale importanza come Chinatown del 1974 o i più recenti capolavori come, su tutti, il toccantissimo Il pianista, il dichiaratamente hitchcockiano L’uomo nell’ombra o l’ultimo notevolissimo scambio di disumanità esternato da Carnage.

Ma questo è solo un valido inizio se si considera, poi, che i veri e propri maestri non filohollywoodiani sono ben altri (e che altri!). Certo, ad una certa “nuova” Hollywood marcatamente corteggiatrice di cervelli europei da citare o prendere a prestito, proprio la Polonia è una delle nazioni che più sta a cuore. Basti pensare anche solo all’inarrivabile genio di David Lynch, che per il suo attualmente ancora ultimo lungometraggio, il controverso e quasi inesplicabile INLAND EMPIPRE (sostanzialmente un estremo Post Noir, della cui classificazione avremo modo di parlare con molta più precisione con pubblicazioni in arrivo tra qualche mese) scelse di ambientare quella che poi, dopo innumerevoli visioni e attente riflessioni in merito, sarebbe diventata, all’opinione critica dello scrivente, una ramificazione chiave dell’intera vicenda (perché, in definitiva, malgrado il mondo intero lo stia ancora negando, quel film una trama l’aveva), precisamente tra le vie di Lodz (città nella quale, tra l’altro, lo stesso Polanski frequentò la Scuola Nazionale di Cinema), avvalendosi, tra i tanti altri, anche di attori locali di nota importanza come Karolina Gruszka e Krzysztof Majchrzak.

Roman Polanski

Ma la nostra memoria non può fingere di dimenticarsi del maestro dei maestri, vale a dire il compianto Krzysztof Kieslowski (nato a Varsavia nel 1941 e ivi deceduto nel 1996, anche lui allievo della Scuola Nazionale di Cinema di Lodz), autore di diversi capolavori (si veda, ad esempio, l’intero Decalogo), tra i quali non è difficile ripescare, per infinitamente goderne, anche quella meraviglia che era (e tuttora è) la trilogia dei Tre Colori, ovvero Film blu (1993), Film Bianco (1994) e Film Rosso (1994), vera e propria summa dell’intramontabile poesia visiva nonché resoconto globale dell’intera opera concettuale di uno dei più alti pensatori di linguaggio filmico della storia. Da non trascurare, però, è anche l’opera da lui incompiuta (e portata termine da Tom Tykwer nel 2002) intitolata Heaven, sospesa ed avvolgente pellicola (girata in Italia tra Torino e Montepulciano) che avrebbe dovuto essere inserita in una nuova trilogia, stavolta basata sui concetti di Paradiso, Purgatorio e Inferno.

Tra i restanti maestri del grande schermo, almeno per quanto riguarda questo nostro comunque breve e conciso excursus mnemonico, converrebbe tenere ben presenti veri e propri pittori della pellicola come Lech Majewski (nativo di Katowice), di recente di nuovo in sala con l’interessantissimo I colori della passione (interamente incentrato sul significato concettuale del quadro di Pieter Bruegel il Vecchio, Salita al calvario), oppure l’impegno etico e civile di Krzysztof Zanussi, autore (con origini italiane) di pellicole a forte (seppur poco percettibile) sfondo politico come il più recente Persona non grata (con espliciti riferimenti alla sua stessa esperienza di presunto collaboratore dei servizi segreti comunisti), del 2005, o i più esistenzialisti (ma sempre con sostanziale sfondo d’impegno) Paradigma (1985) e Ovunque tu sia (1988).

Infine, ma tutt’altro che ultimo, Jerzy Stuhr è ben noto nello stivale tricolore per via della sua duplice collaborazione al fianco di Nanni Moretti per ben due film (Il caimano e Habemus papam) in veste di attore, professione che ha comunque mantenuto per circa quarant’anni (anche collaborando proprio con imponenze come gli stessi Zanussi e Kieslowski), pur mantenendo le proprie radici innestate nel campo della regia e dell’interpretazione teatrale (specie per ruoli derivanti da classici russi di firma Cechov, Gogol o Dostoevskij) e, a tratti, anche cinematografica (notevoli sono le critiche sociali avanzate soprattutto da Storie d’amore, del 1997.

Dunque, a voi una duplice buona visione, con la speranza di trascorrere le attese che passano tra ogni impegno dei nostri azzurri con un tutt’altro tipo di “impegno”.

(Foto: giacomozito.com / 1linereview.blogspot.com / battleshippretension.com)

Stefano Gallone

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