
Dalla fine all’inizio. Corsi e ricorsi umani
Nell’iter produttivo cinematografico, molto spesso (quasi sempre), gli addetti ai lavori storcono (o sono obbligati, per contratto, a storcere) il naso dinanzi a progetti ambiziosi, coinvolgenti e basati su un potente nucleo portante che, però, talvolta, per essere tradotto in immagini, suoni e parole, necessita una sorta di trapianto letterario giudicato, dai più, forse di scarsa facilità di fruizione spettatoriale. Questi signori magari non se ne accorgono, ma finiscono per dimenticare che la comunicabilità di certe tematiche non deve e non può passare, per forza di cose, attraverso storie avvincenti ed effetti speciali. Anzi, una storia può tranquillamente essere avvincente con la sola potenza delle argomentazioni, se diligentemente orchestrata. Certo, se lo spettatore è di per sé indisposto c’è poco da fare (se uno in sala, tra la partita del Napoli e la scatola di pop corn crede che Hereafter di Clint Eastwood sia un film francese per via dei sottotitoli in alcune scene, le speranze di resurrezione sono davvero molto ma molto poche).
Ad ogni modo, Jo Baier dimostra questa tesi con estrema delicatezza (grazie anche alla bella colonna sonora di Ludovico Einaudi), seppur a chiare lettere, nella sua saggia trasposizione cinematografica di La fine è il mio inizio, ultimo e postumo lavoro letterario di Tiziano Terzani, traducendo letteralmente la simbiosi che il libro stesso ha avuto (e continua ad avere) con ciò che Terzani stesso, circondato dalla moglie Angela e dal figlio Folco, ha vissuto nel corso dei suoi ultimi giorni sulla Terra. Ma soprattutto, Baier, grazie al fondamentale sussidio della penna di Ulrich Limmer in collaborazione con lo stesso Folco Terzani, riesce a vincere la sfida di questo non facile esperimento non per tramite di un film biografico, bensì attraverso la costruzione di un opera di riscontro universale, al di fuori della cui narrazione basilare si può cogliere a pieno, in maniera più o meno diretta, l’essenza di qualcosa che va ben oltre 35 millimetri di cellulosa.
Il soggetto principale non ha bisogno di eccessive presentazioni: Tiziano Terzani (è stato, probabilmente, una delle più importanti firme del panorama giornalistico italiano e non solo. Da corrispondente del sud-est asiatico per Der Spiegel alla Cina di Mao Tse Tung, dalle delusioni del sogno di rinnovamento proletario per una società più giusta alla scoperta della malattia mortale che lo condurrà alla scelta finale, ovvero il ritiro di tre anni sull’Himalaya per la riscoperta del sé nelle vesti di eremita, al fine di costruire, finalmente, la capacità di vedere la morte non come un dolore atroce ma come una sorta di ultima avventura, da prendere col sorriso di chi riesce a percepire di essere parte di un tutto troppo grande per poter essere afferrato dal moderno sonno consumista.
Al termine della sua vita piena di avvenimenti, Tiziano Terzani, interpretato da un Bruno Ganz stratosferico (Il cielo sopra Berlino, Pane e tulipani, Un’altra giovinezza, La caduta), vive ormai in ritiro con sua moglie Angela (Erika Pluhar) nell’isolata casa di famiglia in Toscana, in cima ad una immensa vallata ai confini con l’Emilia Romagna. Giunto al capolinea e forte delle sue profonde esperienze umane, Tiziano è ormai pronto a congedarsi dalla vita terrena. Gli resta ancora solo un conto da saldare: convocare il figlio Folco (un Elio Germano in sapiente ascolto reattivo), giornalista e documentarista missionario, per raccontargli la storia della propria vita allo scopo di racchiudere il tutto in un libro. Ed ecco che, allora, i due si ritrovano nella residenza toscana per mantenere Tiziano al centro dell’argomentazione: l’infanzia, la giovinezza a Firenze, i trent’anni di corrispondenze dall’Asia e il definitivo e sconvolgente viaggio dentro se stesso quando, a causa del cancro, si ritira dal giornalismo e si apre completamente ad esperienze spirituali. Ora, Tiziano è pronto per guardare la morte con serenità. L’ultimo obiettivo è il tentativo di fare di Folco, Angela e l’altra figlia Saskia persone suscettibili di pacata e felice comprensione.
I continui monologhi, riscritti con abilità narrativa assolutamente sostenibile e mai sovrappeso da Limmer, viaggiano sull’espressione di un Bruno Ganz sorprendentemente intenso e coinvolgente nell’assimilazione di sensazioni e stati d’animo altrimenti difficilmente avvicinabili. Baier non traduce il tutto in immagini, ma fa delle immagini stesse qualcosa che possa riuscire ad avere una complementarietà con le argomentazioni talmente fine e, al contempo, mozzafiato (si vedano le inquadrature sulla cima più alta del monte, di perfetto risvolto etico con chiari e sostanziali riferimenti al profondo discorso in atto) da ritrovarsi a vincere la sfida del coinvolgimento spirituale extrafilmico.
Non vi è alcun flashback nè riprese oltre i limiti della reale abitazione della famiglia Terzani (fatta eccezione per un paio di brevi sequenze): tutto si concentra nell’intensità dell’interscambio sensibile fra padre e figlio, nella loro reciproca e necessaria condivisione di ogni respiro interiore e di una graduale presa in considerazione di un’ineluttabilità forse mai vissuta con tanta grazia e consapevolezza. E proprio in questo sta la grandezza di un simile esperimento: invitare lo spettatore a ripudiare, almeno per novanta minuti, le forsennate dinamiche da consumismo e prendere parte alla conversazione in un’unica unità di luogo e di tempo, senza cadere nei trabocchetti della noia ma nemmeno in quelli della retorica. Ganz/Terzani non esprime concetti filosoficamente innovativi: è lo spirito, la predisposizione, la potentissima esigenza della sua scelta verbale a rendersi perno della necessità di tradurre se stessi in gracile e fuggitivo tassello del tutto universale.
Stefano Gallone