
C’è un ospite a Montecitorio: Cesare Beccaria
ROMA – Provoca una strana sensazione varcare le porte di Montecitorio in questi giorni, mentre il suo “inquilino” di maggior spicco, il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi, è al centro di una vicenda giudiziaria con accuse piuttosto pesanti. Ancora di più se avviene per visitare l’esposizione che si chiude oggi, 22 febbraio, dedicata a Cesare Beccaria (1738-1794) e al suo scritto Dei delitti e delle pene. Il motivo è molto semplice: il trattato del giurista e filosofo milanese ha tra i concetti centrali quello della certezza della pena, e forse qui sta il motivo del titolo che questa figura di spicco dell’illuminismo giuridico italiano appose in testa al suo manoscritto, Delle pene e delitti. I due termini vennero poi invertiti in occasione della prima uscita a stampa del testo, nel 1764, e così ancora oggi noi chiamiamo e conosciamo questo libello.
Proprio l’autografo beccariano è l’elemento centrale della mostra bibliografica La civiltà dei diritti, aperta dall’8 febbraio nella Sala della Regina, dove spicca tra numerosi tesori e cimeli provenienti dalla Biblioteca Ambrosiana di Milano. Dalla veneranda istituzione meneghina sono arrivati a Roma una serie straordinaria di oggetti appartenuti a Beccaria, alcuni molto curiosi – la feluca, lo spadino, i diplomi con sigilli e stemmi di famiglia, una brocca in vetro soffiato, medaglioni con i ritratti di Beccaria e delle sue due mogli (Teresa Blasco e Anna dei Conti Barnaba barabò)- insieme a parecchi volumi che illustrano la nascita e poi la diffusione europea e mondiale del trattato che l’ha reso famoso.
Il manoscritto fa bella mostra di sè accanto alla prima edizione a stampa, uscita dai torchi livornesi di Marco Coltellini senza indicazione dell’autore: ammirare la versione stampata, risultato di una rilettura e di un lavoro di revisione ad opera di Pietro Verri, è già di per sè emozionante, ma poter osservare dal vivo la rapida grafia di Beccaria che corre sulle pagine del codice supera di gran lunga le aspettative non solo dei bibliofili, ma di qualunque cittadino che sappia riconoscere la portata rivoluzionaria di questo trattato. Protetti da teche, i due libri non sono purtroppo direttamente confrontabili sotto il profilo testuale, ma le schede esplicative sottolineano le principali differenze. A livello manoscritto il testo, concepito per essere più un pamphlet filosofico che un vero e proprio trattato, ha uno stile spesso colloquiale, in molti passaggi poco attento alla forma o alla correttezza grammaticale, con ampie aree bianche per sviluppi di temi da completare in un secondo momento oppure con annotazioni provvisorie. Nel suo corrispettivo a stampa la trattazione appare organica, ben strutturata ed organizzata in paragrafi, perfettamente conforme alle edizioni che ancora oggi circolano e vengono ristampate.
Alla princeps seguono nel percorso espositivo altre edizioni, in tutte le principali lingue europee e non: da quella francese del 1766 di André Morellet fino a quella in arabo di fine Novecento, passando attraverso l’inglese, il russo, il danese, l’olandese. Ma la diffusione e la fortuna dell’opera di Beccaria non può essere disgiunta dal commento approntato da Voltaire (1694-1778) già nel 1766 e subito dato alle stampe: in molte edizioni di poco successive, come quelle inglesi di fine XVIII secolo, testo originale e Commentaire apparivano già uniti quali elementi profondamente intrecciati, benchè le note del filosofo parigino non avessero l’aspetto di una sistematica ‘speigazione’ del Dei delitti e delle pene, quanto piuttosto una lunga denuncia della violenza e della crudeltà di un sistema giudiziario disumano, basato sul fanatismo e sulla folle pratica della pena di morte. Di questa carrellata di edizioni sette e ottocentesche è affascinante potersi soffermare anche sulle illustrazioni: là dove non sia sia scelto un ritratto dell’autore, in antiporta compaiono incisioni di carattere allegorico, con la personificazione della Giustizia.
Il peso che l’opera ebbe sulle legislazioni emanate dai vari sovrani in Europa nel secolo XVIII è universalmente riconosciuto: oltre 100 articoli dell’Istruzione di Caterina II di Russia (1767) derivano da Dei delitti e delle pene, così le riforme della giustizia nell’Austria di Maria Teresa (1717-1780) e poi di Giuseppe II
(1741-1790) disciplinarono il ricorso alla tortura e alla pena di morte seguendo i principi di Beccaria. Fu il Granducato di Toscana, nel 1786, il primo Stato al mondo a cancellare la pena di morte per volontà di Pietro Leopoldo (1747-1792).
Molte le citazioni che si potrebbero riportare per il bruciante richiamo all’attualità, come un passaggio del capitolo XIX Prontezza della pena (“[…] quanto è minore la distanza del tempo che passa tra la pena ed il misfatto, tanto è più forte e più durevole nell’animo umano l’associazione di queste due idee, delitto e pena, […] uno come cagione e l’altra come effetto necessario immancabile”) oppure uno stralcio del XXI Pena dei nobili (“Ogni distinzione sia negli onori sia nelle ricchezze […] suppone un’anteriore uguaglianza fondata sulle leggi, che considerano tutti i sudditi come egualmente dipendenti da esse”), o ancora qualche estratto sulla certezza delle pene secondo cui, a dissuadere dai delitti, non è utile tanto la severità del castigo, quanto la consapevolezza della sua effettiva applicazione.
Ultima occasione per visitare gratuitamente l’esposizione e riflettere sui valori espressi da Cesare Beccaria il 22 febbraio, a Montecitorio, dalle ore 10 alle 19 (ultimo ingresso alle 18,30).
Laura Dabbene
Foto via: http://torresani-edu.blogspot.com/; http://cogitoergovomito.blogspot.com; http://www.duesecolidiscultura.it