La quintessenza di una musica al centro del proprio universo: ‘We were grunge’ di Alessandro Bruni

Tra le pagine di 'We were grunge', Alessandro Bruni dispiega un percorso fisico e interiore rivolto alla ricerca del sé sull'onda emotiva di idoli mai scomparsi dall'universo delle intenzioni

Alessandro Bruni - We Were Grunge

Di libri a tema o di impronta musicale ne sono stati scritti tanti e tanti continueranno, per fortuna, ad uscire, vista una sostanziale e importantissima evoluzione di intenzioni e stili che, nel corso degli anni, ha portato critici, giornalisti o semplici appassionati col dono della scrittura a tirare fuori dal cassetto diverse perle che dalla superficie nozionistica della questione hanno trasportato il discorso su un piano emotivamente differente, mai privo del sempre indispensabile quoziente puramente informativo ma prevalentemente basato su una conformazione umanistica rivolta alla necessità, anzi all’urgenza assoluta di tramandare il più puro vissuto musicale, oltre che la conoscenza storico-discografica di questo o quell’altro artista o band di riferimento. Quello che, però, Alessandro Bruni pone in essere in We were grunge (Persiani Editore), se possibile, va ancora oltre. Molto oltre.

Il 18 maggio del 2017, Chris Cornell – storico frontman di una delle band più importanti della scena grunge di Seattle, i Soundgarden, ma anche dei tellurici Audioslave (ex Rage Against the Machine), oltre che fautore di una altalenante ma emotivamente profonda carriera solista – viene trovato morto in una stanza d’albergo a Detroit. La sentenza è agghiacciante: suicidio. Anche lui, dunque, ha lasciato questo mondo di sua spontanea volontà. Proprio come fece Kurt Cobain, figura centrale di un intero periodo storico ed emblema (non solo musicale ma fondamentalmente) esistenziale di un’intera generazione (quella X) – come anche di quelle future, per certi versi – e proprio come emotivamente paragonabile può essere la dipartita di quell’altro grande astro disintegrato che rispondeva al nome di Layne Staley (degli Alice in Chains), approdato a (chissà quanto) miglior vita per overdose.

Il fatto è che sono passati quasi trent’anni da quando lo tzunami del grunge sconvolse un’intera nazione – e con essa, in pratica, il mondo intero – e più di venticinque da quando tutto si spense con un colpo di fucile autoinflitto, oltre il quale ogni cosa sembrò scemare in una silente mutazione di ragioni d’essere, mai del tutto chiarita se non come mero escamotage da marketing di sorta per far spazio a un nuovo che nuovo non è mai stato. E a rimanere in vita e saldamente ancorato al palco, dei quattro pilastri portanti di quella generazione (a ben vedere sono più di quattro ma quelli rappresentano i cardini emozionali più potenti, capaci in un batter d’occhio di cambiare per sempre le vite di milioni e milioni di persone), è il solo Eddie Vedder, leader carismatico dei Pearl Jam e riferimento spirituale che un protagonista senza nome, adesso, decide di prendere, una volta per tutte, come stella cometa per un viaggio che da fisico si farà, via via, sempre più intimamente rivolto ad un sé in continuo contrasto con una realtà oggettiva non più accettata come tale, tanto nella sua forma più quotidianamente materiale quanto – soprattutto – nella sua fattispecie emotiva, in aperto contrasto con un sentire individuale non più al passo con un tempo incerto, quando non proprio inesistente in sembianze percettivamente reali e condivisibili.

Alessandro Bruni

L’uomo (o il ragazzo) si allontana da casa, famiglia e lavoro con la semplice intenzione di camminare e scrivere. Al suo fianco, invisibile ma presente al sé desideroso di ardente rinnovamento, proprio il buon Vedder, destinatario immaginario – eppure mai così reale – di una sorta di scambio epistolare che si fa anche vera e propria autoanalisi per l’esternazione di stenti, anime che toccano il fondo, individui piccolissimi che si sbranano per accaparrarsi le briciole di un mondo infangato da menzogna e continuo desiderio di sopraffazione. E per cosa, poi? Mai lo si saprà per davvero, in fondo.

A fare da eterno mezzo di trasporto umorale è proprio la quintessenza di un genere musicale che davvero non era solo un genere ma un vero e proprio stile di vita, un fuoco troppo presto estinto ma capace di ridestare le menti, rinfrancare animi assopiti dal conformismo imperante, trascinare con sé intere generazioni senza un presente né una vaga ipotesi di futuro. Perché lo scopo è sempre stato uno e uno soltanto: cercare di capire, fin dove possibile, se può ancora esistere una qualche differenza tra il soccombere alla tetra quotidianità o resistere per costruirsene una di proprietà.

Non importa se sullo sfondo non ci sono i sentieri del Cammino di Santiago ma gli splendidi boschi della Via degli Dei che parte da Bologna e arriva a Firenze. Quello che conta, in un libro come We were grunge, è l’esserci ancora nonostante tutto. E si tratta di un esserci strettamente legato a uno spirito vitale che proprio dalla morte (suonata e vissuta) ha tratto la forza di continuare a cercare una direzione attraverso un infinito dialogo interiore fondamentale per ritrovare un orientamento nel mezzo di un cammino divenuto troppo denso di ostacoli futili e inadempienti a qualsiasi prospettiva di crescita personale.

Con We were grunge, Bruni non solo marchia a fuoco – assieme a diversi altri colleghi non di minore portata – l’imprescindibile funzione vitale che la musica (in questo caso un certo tipo di musica, ma vale anche per molto altro) avrà per sempre, malgrado tutto, nei confronti di chi continuerà ad accettare di abbandonarvisi per riemergere dalle acque di un presente inaccettabilmente melmoso e stagnante, ma delinea il ruolo che questo specifico approccio ha sempre avuto nei confronti di esseri umani eternamente in viaggio su una via crucis fatta di canzoni, avvenimenti, vite vissute o immaginate, uomini che dalla sofferenza hanno tirato fuori arte pura immolandosi sull’altare del bisogno di condivisione di ferite ancora aperte, il cui sangue è necessario assaporare per provare ancora, e per sempre, a visionare una qualche immagine di sé quando capita di passare davanti ad uno specchio.

 

Stefano Gallone
@SteGallone

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