‘We were born in the wrong decade’. The Jester e il concetto di contemporaneità

"We were born in the wrong decade", il primo album dei siciliani The Jester, è un buon esempio di come ci si possa immergere nell'oggi per provare a dargli un senso del tutto differente

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“Mamma, cazzo, non mi potevi fare vent’anni prima?!”. Alzi la mano chi, tra i nati nella decade degli ’80, non ha mai anche solo lontanamente abbozzato la scintilla di un simile pensiero. Se foste presenti dietro questa tastiera di personal computer, in questo preciso istante, vi sovrasterebbero le cinque dita attaccate al braccio destro dello scrivente. Vuoi mettere i Pearl Jam al PinkPop nel ’92 con il più clamoroso stage diving della storia, o – che so – i Nirvana che sfasciano Mezzago nell’89 o Springsteen che infiamma San Siro nell’85? E nossignore. Ora mi devo scuoiare per accaparrarmi un pit da cento euro pur di riuscire a vedere un distantissimo brandello di carne viva appartenente a chiunque salga su un palco da stadio, se voglio godermi qualcosa che non sono andato a pescarmi con estrema fatica e vivido sudore in qualche cantina ammuffita che serve birra annacquata.

Poi ti guardi intorno e, deo gratias, ti accorgi che non sei il solo a delirare su fantasticherie del genere ma c’è qualcuno, quasi tuo coetaneo, che ci ha fatto addirittura un disco, spendendo dunque ogni energia e anche diversi soldi pur di inchiodare su un qualunque supporto contemporaneo quella specie di grido esorcizzante che però, grazie a un certo savoir-faire derivante da una sempre importante dose di esperienza, ti arriva all’orecchio docile ma diretto, caldo ma spinoso, vellutato ma ruvido nelle intenzioni concettuali più profonde e – per certi versi – anche analitiche.

Quel qualcuno si chiama The Jester e rappresenta un quartetto siculo il cui corpo del reato, archiviato sotto la chiarissima voce We were born in the wrong decade (Rocektman Records) richiama l’attenzione proprio su simili elementi percettivi. Per carità, scherzi a parte: il punto di partenza, senza dubbio, propone un “in media res” mnemonico ben preciso ed è quello a cui abbiamo accennato. Ma la faccenda si fa concretamente seria quando a posizionarsi sul tavolo da gioco sono carte pregevoli e, cosa forse più importante, precise nel dispiegare intenzioni covate da tempo e – raggiunto il giusto grado di consapevolezza ideologica e strumentistica – lanciate nell’aria con una precisa rotta da seguire.

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We were born in the wrong decade, primo album ufficiale inciso da Sanny Tripoli (voce, chitarre e tastiere), Nicola Cassata (chitarre e cori), Antonio Arena (batteria e percussioni) e Mattia Monaco (basso e cori) a nome The Jester, è infatti una miscela molto ben studiata in termini di scelte sonore. Se l’obiettivo contenutistico è quello di strutturare una sorta di concept album (se è possibile ancora utilizzare, in mala tempora, una definizione di questo tipo) sulla contemporaneità di quattro trentenni che hanno diverse cose da dire in merito a un’epoca in cui, anche in musica, non si rispecchiano o non riconoscono punti di appoggio e padri spirituali sufficientemente all’altezza delle proprie specifiche esigenze emotive, allora, probabilmente, l’idea di fiondarsi a capofitto proprio dentro il genere più additabile di sciatteria e tradimento energetico (quello stramaledetto indie rock dei miei stivali, che non è mai stato né indie né rock) può riferirsi all’intenzione di combattere il nemico dall’interno, un nemico fatto di certezze acquisite e obiettivi autoimposti in termini di evoluzione personale, fin dove possibile.

E allora ecco perché un album come We were born in the wrong decade appare soltanto come l’ennesimo disco di finto rock melodico da views su YouTube ma arriva ad essere realmente (e questo è, forse, l’elemento davvero interessante) un concreto esempio di come ci si possa liberare da zavorre autoinflitte pur di piacere (ma a chi e per cosa? E poi basta volerlo, né più nè meno; ah certo: anche averne le capacità, ovviamente). Il tutto allo scopo di riallacciarsi – ma tu guarda un po’ – proprio a qualcosa che una decina o quindicina (fai pure ventina o trentina) di anni fa gonfiava di interesse generi e sottogeneri per, in fin dei conti, provare a ripartire, in qualche modo, da qualche punto.

È quello che i The Jester riescono a fare nel frangente più sorprendente dell’album, quello coadiuvato, cioè, da meravigliosi beatlesismi (Stuck) e incursioni britpop dalle varie sfumature (i quasi The Verve di Quench, gli spunti semi-Blur di Full of ligh, le aperture Doves di The place, non rinunciando a sorvolare l’oceano per scoprire anche un certo feeling R.E.M in Right Cards).

E forse non è poco, se ci riflettiamo per davvero. Avere la forza e la voglia, oltre che il tempo, di provare a vedere un po’ chi si è e da che parte di vuole andare non è cosa comune a tutti, oggigiorno.

Voto: 7

Stefano Gallone

@SteGallone

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