WaterTower: trent’anni a cavallo dell’energia creativa

Il nuovo album eponimo della storica band lombarda, oltre a intenti celebrativi, racchiude un grande potenziale di evoluzione stilistica e compositiva

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Trent’anni e non dimostrarli affatto grazie all’eterna potenza di un jack di chitarra attaccato all’amplificatore. Sembrano passati al massimo un paio di giorni da quando tre ragazzi delle periferie milanesi diedero vita ai WaterTower, una tra le primissime band della scena punk-rock underground lombarda. Sembra davvero ieri, tanta è la lucidità, la precisione ma anche la possanza con cui questi signori affrontano un genere mai del tutto saturo di soluzioni e contenuti. E invece è dal lontano 1989 che la band lombarda infiamma i palchi italiani fornendo occasioni – a sua stessa detta – “di ritrovo per tutti i giovani delinquenti del circondario”.

Vicende personali e vari cambi di formazione potrebbero, all’apparenza, aver scalfito quell’immediatezza irrequieta così necessaria a portare avanti un discorso veramente libero da opprimenti sovrastrutture di mercato, ma non è affatto il caso di questa gentaglia qui. Dall’opera prima datata 1996 (Con l’aggiunta di anidride carbonica), passando per il 1998 dell’ep Antiossidante, il più completo Saloon del 2001 e la maturità di esperienze quali Radioattivo (2004) e Vendesi illusioni (2007), culminanti nel “best of” Quanta strada del 2014 (celebrativo dei primi 25 anni di carriera) assieme a tanti, tanti, ma veramente tanti live, saranno cambiate le formazioni ma lo scopo dell’essere al mondo è sempre il medesimo: pestare, ringhiare, ruggire, urlare con criterio tutto quello che si ha in corpo senza mezzi termini, senza mediazione alcuna.

Lo dimostra a gran voce il nuovo album eponimo (WaterTower, appunto), celebrativo del trentennale dell’agglomerato lombardo e grazie al quale emerge, se possibile (ma certo che è possibile), un ulteriore passo in avanti verso un superiore livello di maturità sia personale che di gruppo.

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Il linguaggio espresso dai WaterTower è estremamente semplice ma perfettamente in grado di arrivare a chiunque senza scadere assolutamente mai nel banale o nell’innocuo lungo la trattazione di tematiche perfettamente riconducibili a qualsiasi tipologia di esperienza sia quotidiana che collettiva. Nel farlo, però, la band si serve di un sound corposo e denso di soluzioni tanto dirette quanto ascrivibili a nuovi padri ispiratori, tra i quali figurano – non senza una piccola dose di sorpresa – Johnny Cash, Elvis Presley e Motorhead.

Ed è proprio questa sottile venatura classic-folk in scontro frontale con l’approccio heavy (anche quello, diciamo, classico ma) più tellurico ad arricchire il già esperto background punk-ska-hardcore presente nelle vene dell’agglomerato lombardo.

Una maggiore cura nella strutturazione degli arrangiamenti si nota senza ombra di dubbio fin dalle primissime battute di Quello che ho, in parallelo, però, con una potenza disarmante sprigionata dalle architetture spaccaneuroni ben più hardcore che punk-rock. La mente vaga, infatti, in un limbo dove fanno capolino anche esperienze fuoriuscenti da Touch and Go e Dischords mentre scorrono le frustrazioni folk-fiatistiche di Controvento, gli echi Bad Religion di La notte passerà e Umano disumano, le purezze ska di Ti sei accorto o Occhio malocchio e le manie puramente hard rock di Immaginazione.

Potenza, potenza e ancora potenza, ma anche tanto divertimento in una bella prova di energia senza tempo e senza confini per ogni caratteristica di raggio d’azione. A buon rendere, per trent’anni ancora e forse più.

Voto: 7
Stefano Gallone
@SteGallone

 

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