
“Un sapore di ruggine e ossa”: un film dolce dal retrogusto amaro
Il regista francese Jacques Audiard, con il suo nuovo Un sapore di ruggine e ossa, si rimette in gioco e, ispirandosi ai racconti di Craig Davidson, mette in scena un film sull’ironia del destino e sulla potenza che ha la forza di volontà nell’autodeterminarsi.
I protagonisti Ali (Matthias Schoenaerts) e Stéphanie (Marion Cotillard) sono apparentemente diversissimi, provengono da strati sociali completamente diversi e conducono vite, apparentemente, lontane ma molto più simili di quanto si possa pensare. Lui è uno squattrinato, vive dalla sorella ad Antibes nel sud della Francia, ha un figlio a carico, vuole rispolverare il suo passato da boxeur e diventa buttafuori per cercare di sbarcare il lunario. Lei è una giovane ammaestratrice di orche marine e ha una vita quasi perfetta. Dopo una rissa in un locale Ali conosce per caso Stéphanie e ne resta molto colpito. Lei è così bella e sembra avere il mondo in mano, ma il Fato le pone davanti una sfida difficilissima costringendola sulla sedia a rotelle, mutilata. Ali rivede Stéphanie in questa nuova veste che la vita le ha cucito e cerca di aiutarla e restituirle la voglia di vivere per affrontare questa dura prova.
Una Marion Cotillard superba, intensa con una grazia e una forza incredibile che rende il film sempre interessante e pieno di pathos, senza annoiare, incarnando pienamente il senso della tragedia con un messaggio propositivo e pieno di coraggio. Divide bene la scena con Mathias Schoenaerts che comunica tantissimo con gesti ed espressioni, riducendo la comunicazione verbale al minimo.
Il classico esempio, dunque, di cinema francese che piace e non appesantisce, intimo, pieno di apparenti contraddizioni, poi risolte nello svolgersi della trama. Ali è un personaggio rude, molto essenziale, quasi primitivo che vive per soddisfare i bisogni primari, Stéphanie, sebbene paralizzata, sarà il motore che permetterà al coprotagonista di togliere la ruggine dai suoi sentimenti e lasciarsi andare all’amore. Un film quasi ascetico che mostra come dal dolore e dalle sofferenze si possa uscire a testa alta e con una nuova consapevolezza, oltre a sottolineare come quelle che sembrano le sconfitte della vita, forse, sono le vere vittorie, lasciando però un retrogusto amaro in bocca per restare sempre a contatto con la realtà e non diventare utopistico.
La fotografia è eccezionale, dotata di una grande intensità di primi piani, di sguardi, dove il silenzio primeggia sulla parola e diventa molto più eloquente. Si tratta, forse, di una scossa che lo stesso Audiard vuole dare per mostrare glorie e miserie della natura umana senza mezzi termini, per diventare, poi, uno sprone ad andare avanti senza remissione.
Mariateresa Scionti