
To the wonder: purezza e rigidità come antitesi a confronto – Recensione
Considerazione esterna – Per noi addetti al settore, seppur non ancora retribuiti, corrisponde sempre ad un piacere immenso partecipare alle anteprime cinematografiche. Meglio ancora se per film provenienti da personalità artistiche di nostro elevato e sempreverde gradimento. Questo stesso piacere immenso, purtroppo, si affievolisce un tantino quando poi, una volta in sala, ci si ritrova seduti dietro o accanto o davanti a derivazioni giornalistiche varie (probabilmente retribuite), il cui solo commento finale, terminato lo scorrimento dell’opera sul grande schermo, altro non riesce ad essere se non un secco “non ci ho capito niente: di cosa parla questo film? Ti prego spiegamelo”. Ordunque, a questi signori male non farebbe (ad esser buoni) una ripassata di filmologia se non proprio di sensibilità (cosa suprema e rara che, naturalmente, non si può apprendere ma solo vivere) utile almeno a comprendere un minimo di ciò a cui si è scelto (senza previa prescrizione medica) di partecipare, non presenziare.
Il film – Decifrare Terrence Malick, quasi certamente uno degli artisti (più che unicamente registi) statunitensi più e meglio europei mai esistiti, naturalmente non è, come ovvio, per nulla affar semplice (sono perdonati, dunque, anche i retribuiti impreparati o, per di più, impazienti di vedere il film finire, dal momento che la proporzione tra la loro noia e la rispettiva incapacità di comprendere o, più che altro, di lasciarsi assorbire dal film è quanto mai diretta). Lo abbiamo testato sulla nostra stessa pelle, in veste di sublimazione cinematograficamente linguistica, con il precedente The tree of life, cui comunque questo nuovo (e molto bello, sia chiaro fin da subito) To the wonder fa inevitabilmente i conti traendone conclusioni limitrofe se non (si direbbe) derivative. Lo stile è il medesimo quasi da sempre, ormai un marchio di fabbrica post Rabbia giovane a nome Malick: commento sonoro equivalente alla durata e corposità emotiva dell’intero film, macchina a mano, steadycam, proporzioni al limite del grandangolare, inquadrature meravigliosamente pittoriche e setacciate al milligrammo pur di stabilire, come sempre, un genuino campo semantico visivo di rara bellezza sublimante.
La storia di base è, ancora una volta, di stampo semplice ma di articolatissimo sviluppo per tramite di voci interiori e parole “visuali” che sfiorano la primordialità dei sensi in maniera prossima alla “sottile linea” che divide lo spirito dalla carne, l’onnipresente incorporeità eterea dell’individuo dalla ragione e la razionalità. Lo statunitense Neil (Ben Affleck) e la francese Marina (Olga Kurylenko) sono perdutamente innamorati l’uno dell’altra. Lei, reduce da un matrimonio fallito e madre di una bambina, decide, col consenso della figlioletta, di seguire l’amato negli Stati Uniti per tentare di cominciare una nuova vita insieme. L’enorme consistenza emotiva che smuove Marina riguarda un dominante stupore nel vedersi di nuovo capace di percepire sensazioni d’amore vero, caratteristica che corrisponde a ciò che, in sé, prova sinceramente anche Neil pur non essendo, però, capace di mostrare i tratti somatici del suo benessere di coppia in maniera facilmente tangibile. Taciturno ed introverso, Neil si sente completo solo avendo Marina accanto a sé. Ma inevitabilmente il comportamento chiuso di lui e l’indomabile gioiosità adolescenziale di lei provocheranno contrasti, allontanamenti per scadenza di visto di soggiorno non trasformato in residenza per tramite di un matrimonio inizialmente mancato, tradimenti e incomprensioni più o meno forti o valicabili. Parallelamente, scorre anche la storia di padre Quintana (l’ottimo Javier Bardem), eccellente parroco di origini latinoamericane, pastore delle anime del desolato e inconcludente luogo periferico in cui Neil e Marina vivono: nella sua anima, ormai, l’uomo viene prima del prete, tanto da non riuscire a capire il motivo per cui non sa più percepire, da diverso tempo a questa parte, il concetto stesso di amore divino, trovando invece un pur minimo barlume di risposta nel concetto di amore terreno per il prossimo.

Ben Affleck e Olga Kurylenko in una scena di "To the wonder" di Terrence Malick (stanzedicinema.com)
Il filo diretto con il precedente discorso ampiamente portato nelle più alte sfere del firmamento da The tree of life (sviluppato anche con una certa urgenza personale da parte dello stesso Malick: l’arco di circa un anno e mezzo tra l’uscita di un suo film e l’altro è cosa veramente molto rara), qui, sembra proprio essere, oltre l’incommensurabile fattore stilistico (naturalmente), la contrapposizione per antitesi sia visiva che tematica dei concetti più intimi e profondi legati alla primordiale essenza di purezza divina pur sempre implicita, malgrado tutto (davvero tutto), in un animo umano votato a vivere la vita nella sua interezza, sia materiale che (molto di più) ascetica (wonder = meraviglia, stupore) e, per contro, l’incatenante rigidità incautamente e ingiustamente inflitta a sensibilità di varia natura nel loro non riuscire a rendersi artefici di un eternamente necessario innalzamento emotivo che, da sempre, attanaglia l’individuo nelle proprie stesse prigioni interiori, come se provare ad attraversare con leggerezza e serenità i percorsi più aguzzi dell’esistenza corrispondesse a chissà quale torto o crimine.
Le quattro lingue parlate, come sempre quasi esclusivamente in voice over per tutto l’arco del film (francese, inglese, spagnolo e anche italiano per via della fugace presenza della nostra connazionale Romina Mondello) ben convogliano il comune interesse nella capacità di favorire il distacco tra gli individui sia in maniera interpersonale che, soprattutto, autoreferenziale, quasi a voler sottolineare come la pena inflitta al peccato di svalutazione dell’esistenza stessa equivalga a voltarsi dopo aver spensieratamente volteggiato per paradisiaci campi di grano ma, contrariamente agli esordi, non trovare più nessuno sguardo, nessun sorriso, nessuno stupore inseguitore, per l’appunto.
Alla luce di questo, To the wonder, al di là delle sempre e comunque necessarie e giustissime libere interpretazioni, potrebbe rappresentare (e valere fino in fondo come) un implicito elogio alla vita nella sua più totale urgenza di sentirsi vissuta nella concretezza della propria stessa esistenza e della (anch’essa concreta, malgrado pur lecite contraddizioni) imprescindibile necessità di sublimazione del lato etereo dell’umanità, complementare e, proprio per questo, fondamentale per l’accettazione di se stessi dinanzi allo specchio delle proprie personali impressioni.
(Foto: film-cinema.com / stanzedicinema.com / nanopress.it)
Stefano Gallone
@SteGallone
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