
Stress da lavoro? Risarcimento anche dopo il lincenziamento
Si sente parlare in continuazione dello stress da lavoro, spesso derivato dalle condizioni lavorative, dai carichi insostenibili di compiti da terminare, dagli orari disumani o dai difficili rapporti interpersonali, che talvolta arrivano a toccare il mobbing. Recentissima (dello scorso 24 ottobre) la sentenza nr. 18211 della Cassazione, che ha riconosciuto il diritto del lavoratore a essere risarcito per il danno biologico subito a causa di stress, dovuto a super lavoro, anche se non lo ha mai rivendicato nel corso del rapporto di lavoro; e anche, successivamente, al licenziamento.
La sentenza spiega come, «in base al principio della “ragionevolezza” l’orario di lavoro deve rispettare i limiti della tutela del diritto alla salute». Questo in seguito alla vicenda redatta da Umberto Berrino, secondo il quale, un portiere in una società romana che per tanti anni aveva garantito l’assistenza ai clienti, curandosi anche della cura dei valori in cassaforte, stava accusando infine, a causa del lavoro dalle 21 alle 9 del mattino successivo, uno stress da super lavoro. Vittima di ciò il portiere aveva richiesto di essere spostato al turno diurno. Con la motivazione che esistevano già altri due portieri durante la giornata, la società lo aveva invece licenziato.
Davanti al giudice del Lavoro era stata stabilita la legittimità del licenziamento; ma la società era stata condannata a risarcire l’ex portiere con 25 mila euro per la sindrome ansioso-depressiva, causata dalla situazione lavorativa protrattasi dal settembre 1974 al marzo 1997.
La Corte d’appello di Roma, nel marzo 2008, aveva inoltre riconosciuto al lavoratore una ulteriore somma di 1292 euro a titolo di differenze retributive.
La società ha fatto ricorso in Cassazione contro la condanna al risarcimento dello stress al lavoratore, puntualizzando che la prestazione di un portiere non poteva essere considerata usurante a causa delle «pause di inattività» legate a quel genere di prestazione. Il ricorso è stato bocciato con l’osservazione che «il principio di “ragionevolezza” in base al quale l’orario di lavoro deve rispettare i limiti della tutela del diritto alla salute, si applica anche alle mansioni discontinue o di semplice attesa, per le quali la variabilità, caso per caso, della loro onerosità – che dipende dalla intensità e dalla natura della prestazione ed è diversa a seconda che questa sia continuativa, anche se di semplice attesa, o discontinua – impedisce una limitazione dell’orario in via generale da parte del legislatore».
Infatti, annota ulteriormente la Suprema Corte, «il criterio distintivo tra riposo intermedio, non computabile ai fini della determinazione della durata del lavoro, e la semplice temporanea inattività, computabile, invece a tali fini, e che trova applicazione anche nel lavoro discontinuo, consiste nella diversa condizione in cui si trova il lavoratore, il quale nel primo caso può disporre liberamente di se stesso per un certo periodo di tempo anche se è costretto a rimanere nella sede del lavoro o a subire qualche limitazione, mentre, nel secondo, pur restando inoperoso, è obbligato a tenere costantemente la propria forza di lavoro per ogni necessità».
Nel corso del procedimento, è stato provato «lo svolgimento dell’orario indicato in ricorso, cioè dalle ore 21,00 alle ore 9,00 del mattino seguente», come era stato provato «che durante tale turno il G. era addetto, quale portiere notturno, alla ricezione ed all’accoglienza dei clienti, oltre che alla custodia dei valori in cassaforte, mettendo completamente a disposizione della datrice di lavoro le proprie energie lavorative anche nei momenti di minor traffico, per cui le stesse non potevano non essere considerate effettive, con la conseguenza che era risultato lo svolgimento di un orario di lavoro superiore a quello ordinario, tale da dover essere remunerato come straordinario».
Nel caso in questione, la Cassazione ha fatto notare che «legittimamente la Corte d’appello ha osservato che la società aveva imposto al lavoratore ritmi lavorativi gravosi come tali incidenti sull’equilibrio psico-fisico del medesimo». Del tutto legittimamente, dunque, il super lavoro è stato ritenuto «concausa della sindrome nevrotica ansiosa» del lavoratore, che ne è uscito quindi risarcito, e sarà un riferimento da tenere in considerazione per casi similari.
Benedetta Rutigliano
Immagini tantasalute.it e medicinalive.com
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