
Scomunicato perché ‘felicemente gay’, (don) Mario Bonfanti si racconta
'Mi resi conto che praticare la sessualità mi rendeva molto più umano. Non volevo essere falso né con me, né con gli altri': il racconto senza filtri di (don) Mario
Allontanato dalla Chiesa perché omosessuale. Ben prima del coming out del teologo polacco – monsignor Krzysztof Charamsa - ad uscire allo scoperto, ci aveva pensato (don) Mario Bonfanti, ex sacerdote lombardo, scomunicato nel 2012. Ecco la sua storia, raccontata in una lunga intervista per Wakeupnews.
Com’è nata la sua vocazione al sacerdozio?
Da che abbia memoria, sicuramente già dalle elementari volevo farmi prete. Alle medie non ero ancora sicuro di voler entrare in seminario ma alle superiori decisi di fare questo passo. Sono sempre stato affascinato dalla ricerca spirituale, dalla meditazione, dal contatto con la natura, con se stessi, il cosmo e l’universo. Leggevo della spiritualità carmelitana di Santa Teresa D’Avila, di San Giovanni Della Croce e per questo ho chiesto di prendere contatto con i padri carmelitani. A 19 anni sono entrato in convento.
Quando, invece, ha raggiunto la piena consapevolezza della sua omosessualità?
Che io fossi attratto dagli uomini era evidente sin dalle elementari. Quindi si può dire che le due identità si siano mostrate parallelamente. Ma avere attrazione verso i maschi non vuol dire immediatamente avere la consapevolezza di essere gay. Per dire a me stesso: “Ok, sono gay!” ci sono voluti anni. È stato in adolescenza, durante le superiori, che sono comparse le prime domande e, di conseguenza, i primi dilemmi. L’essere in seminario in quegli anni ha fatto sì che la questione prendesse una piega quasi drammatica. Ho cominciato a sentirmi sbagliato, ad avere vergogna e sensi di colpa anche legati alla masturbazione. Sentivo di dover tener a bada quest’aspetto della mia sessualità. Ai tempi avevo sviluppato un senso della spiritualità molto angelica, oserei dire spiritualoide, una mistica dello spirito slegata dalla carne, dal corpo, dalla realtà. Motivo per cui, dovevo combattere questa parte di me.
E ha vissuto il percorso spirituale come strumento utile a placare il senso di colpa?
Il senso di colpa è nato dalla spiritualità. È stata la spiritualità a crearmi questo stato di insofferenza. Ho iniziato a sentirmi in colpa quando mi son buttarmi in maniera seria e anche un po’ esasperata dentro questo tipo di spiritualità ascetica, di rinuncia alla carne, di mortificazione, di disprezzo di sé, una visione cristiana legata al dolore come strada per redimersi.
Perché ha scelto comunque di continuare fino a prendere i voti se identificava la spiritualità come la causa del suo senso di colpa?
È solo ora che la identifico come tale, allora non ne avevo consapevolezza. All’epoca c’erano due poli importanti nella mia vita: la mia identità sessuale – al di là della pratica, del peccato, perché io a parte la masturbazione non ho mai avuto relazioni sessuali in quel periodo – la quale era una parte importante di me, non era una cosa marginale, non era una scelta, era appunto una identità. Dall’altra anche la mia vocazione era una cosa forte, anche questa non era una banale scelta, non ho tirato i dadi ed è uscito prete invece di muratore. Era anch’essa qualcosa di radicale dentro di me. Ma le due cose confliggevano.
E quando ha capito che questi due aspetti della sua identità non potevano più convivere?
In realtà successe l’opposto. Poco prima che prendessi i voti, durante un raduno spirituale incontrai una persona che mi aiutò a comprendere, mi diede risposte, mi chiarì tanti dubbi. Fu lui a fornirmi una visione completamente nuova dell’omosessualità. Fu manna dal cielo per me perché era esattamente quello che stavo aspettando. Per la prima volta mi sentii normale, sano e giusto così. Da quell’incontro iniziò il cammino di pacificazione tra la mia vocazione e il mio orientamento sessuale. Capii di poter continuare il mio percorso religioso pur essendo gay, accettando serenamente di esserlo.
Aveva dunque raggiunto l’equilibrio che cercava, cosa successe dopo?
Erano diversi anni, ormai, che studiavo teologia alla facoltà teologica a Milano e a quei tempi si trattava di una facoltà che non guardava tanto al Vaticano ma all’area protestante. Benché questo orientamento, inizialmente, mi devastasse perché metteva in discussione tutto ciò che avevo imparato fino ad allora, in realtà fu una fortuna per me. Imparai a ragionare in maniera critica sulla fede, a discernere nel cristianesimo cosa è importante e fondamentale e cosa è opinabile, discutibile, storico o legato a compromessi politici, come per esempio il celibato dei preti. Così mi resi conto che praticare la sessualità mi rendeva molto più umano. Non volevo essere falso né con me, né con gli altri. Sapevo di poter far convivere le due parti di me, ma dovevo farlo apertamente. L’aver preso posizioni sincere, chiare e nette, però, mi ha creato non pochi problemi.
Sta dicendo che non ha mai nascosto la sua omosessualità, anche prima di prendere i voti?
Certo. Tutti sapevano che io ero gay. Era risaputo sin da quando ero in convento, sin dall’inizio della mia crisi. È ai padri carmelitani che mi rivolsi per chiedere un aiuto psicologico, perché avevo bisogno di capire, di capirmi. Io avevo bisogno di trovare pace dentro di me rispetto all’essere gay e allo stesso tempo avere la vocazione del sacerdozio. Ma la cosa mi si è rivoltata contro, è iniziato uno stillicidio che è durato per parecchio tempo, fin quando ho deciso che non aveva più senso rimanere in quel posto e ho lasciato il convento. In seguito, ho tentato di entrare in seminario diocesano a Milano ma i frati mi hanno messo i bastoni tra le ruote. Non ho mai saputo cosa abbiano riferito ma, in ogni caso, sono riusciti a farmi chiudere tutte le porte. A quel punto nessuna diocesi voleva più accogliermi.
Eppure non si è arreso, ha preso i voti. Come ha fatto?
Son dovuto emigrare in Sardegna e cercare un vescovo che non avesse problemi sul fatto che io fossi gay. Ma anche lì non fu semplice. Una settimana prima che diventassi prete, il Vaticano ricevette una soffiata e intervenne per bloccare la mia ordinazione. Nonostante l’intimazione del Vaticano, però, il vescovo decise di ordinarmi anche se questo significava schierarsi contro i suoi superiori. Così son diventato prete, era il 2002 e avevo 31 anni ormai. Quando però il vescovo andò in pensione e a lui succedette il nuovo, questo minacciò di mandarmi nel famoso convento di Trento, dai padri venturini a fare terapia riparativa. Io, ovviamente, mi sono ribellato.
In cosa consistono queste terapie riparative?
Non so di preciso, perché fortunatamente non ci sono mai andato. Ma alcuni preti che ci sono andati e con cui ho contatti mi hanno parlato di una specie di cammino volto ad aiutare la persona a riacquistare una sorta di regolarità nella propria vita, quindi: orari, preghiera, lavoro. E in più, un aiuto psicologico che va nella direzione della guarigione dall’omosessualità. Chiaramente loro non la definiscono così ma in sostanza è quello.
Benché, come dice, tutti sapevano della sua identità sessuale, in realtà i giornali hanno parlato di un altro coming out, non è così?
Si, alcuni attribuiscono il mio coming out ad una mia pubblicazione su Facebook nel 2012 in cui scrissi: “Sono gay. Anzi: sono prete felicissimamente gay!”. Ma in verità ho sempre esercitato il mio essere prete mentre tutti erano a conoscenza della mia omosessualità. Probabilmente, si vuole far risalire il mio coming out a quel post anche perché, immediatamente dopo, sono stato sbattuto fuori dalla chiesa. Ma non è corretto. La scomunica era già in atto da un sacco di mesi. Inoltre, tra le cose che mi sono state contestate, alcune non c’entrano niente con il mio esser gay o l’avere una relazione, ma riguardano alcune posizioni assunte in merito alla famiglia, alle coppie di fatto, alla comunione, ai separati e divorziati o, ancora, a questioni riguardanti le terapie di fine vita. Anche questi argomenti hanno concorso all’avvio del processo contro di me.
Ha dichiarato che esercitando la sua sessualità sentiva di essere più umano. Lei però era ancora a tutti gli effetti un prete. E stando a quelli che sono i postulati della chiesa, a prescindere dall’essere omosessuale o eterosessuale, un sacerdote è tenuto a rinunciare al piacere della carne, non è così?
Esercitavo la mia sessualità perché sentivo che per me avere una relazione stabile, avere un compagno e una relazione affettiva coinvolgente e globale mi aiutava ad essere un prete migliore. Ma non infrangevo alcun voto, non proprio almeno. Innanzitutto tra le persone c’è spesso la confusione tra voto di castità e promessa di celibato: sono due cose completamente diverse dal punto di vista del diritto canonico. All’interno della chiesa la promessa di celibato consiste nel non sposarsi, punto. Non nel divieto di fare sesso. Invece il voto di castità è richiesto solo a suore, frati, a chi vive in un convento, in un monastero, ma non è assolutamente richiesto ai preti. Si pensa che la castità sia un prerequisito per diventare prete, non lo è per niente.
Ma, considerando che la chiesa non ammette il sesso al di fuori del matrimonio, non sarebbe corretto sostenere che la promessa di castità sia, di fatto, una promessa insita nella promessa di celibato a cui, quindi, anche i preti debbano prestare fede?
Questa è stata un’estensione indebita dovuta alla Controriforma. I protestanti hanno intrapreso la strada evangelica che diceva che i pastori potevano sposarsi. A quel punto la chiesa cattolica per contrasto e per definire la diversità è passata dal non sposarsi al non far sesso.
Che sia dovuto alla Controriforma o meno, l’esercizio della sessualità nel sacerdozio viola una delle promesse fatta al momento dell’ordinazione, quindi lei…
Si, si. Tant’è vero che io me ne sono uscito dalla Chiesa – ride, ndr – . Anche se poi c’è da dire ci sono fior di papi che hanno avuto figli e son rimasti papi, così come vescovi. Questo però non invalida il fatto che fossero preti o vescovi, e non invalida i sacramenti che amministravano, anche se hanno violato la promessa di castità.
Ne è uscito lei spontaneamente o è stato scomunicato?
Entrambe. Io ero già in contatto con altre realtà ed altre chiese, soprattutto con la chiesa episcopale di Milano. Effettivamente, stavo valutando un passaggio alla chiesa anglicana anche per una questione di lealtà verso me stesso e gli altri. Quando il Vaticano aprì un processo canonico contro di me per spretarmi, allora mi convinsi che era arrivato il momento di farlo davvero.
Ha parlato di preti e vescovi che vivono infrangendo i voti, che conducono vite parallele nell’ombra. Crede quindi che il suo problema sia stato l’averlo reso noto?
Ne sono sicuro. Durante questo casino del processo, uno dei responsabili della diocesi di Milano mi ha detto una cosa molto simile a questa: “Mario ma perché hai detto certe cose? Potevi tranquillamente andare avanti, fare quello che facevi, tanto lo sappiamo che più della metà dei preti sono gay e che hanno anche delle relazioni ma bastava che non lo dicessi!”. Ed è davvero così.
Com’è cambiata la sua vita dopo la scomunica? Come’è cambiato il suo rapporto con i fedeli?
Ho avviato un cammino con la chiesa episcopale e un po’ di persone mi hanno seguito, tra cui anche alcuni appartenenti alla parrocchia dove io ero prete. Ne è nato un bel gruppettino, una piccola comunità fatta di coloro che più si accostavano alla chiesa episcopale.
Quindi adesso è un sacerdote della chiesa episcopale?
No. Son successe altre cose nel frattempo. Nel gruppo che mi seguiva, man mano, sono entrate anche alcune persone non cristiane. Ora ad esempio c’è una persona atea, una agnostica o una famiglia filobuddista. Quindi un passaggio alla chiesa anglicana diventava difficoltoso perché con tutte le sue aperture ha comunque le sue ufficialità, ad esempio chiede che i membri siano battezzati e non ha nessun senso che un ateo si battezzi. Siamo rimasti autonomi, finché non abbiamo conosciuto la Metropolitan community Church e abbiamo deciso di iniziare un cammino con loro.
Cosa vi ha attratto della Metropolitan community Church?
Finalmente abbiamo trovato una realtà, una chiesa davvero inclusiva che accoglie chiunque in senso concreto e non solo a parole. La Metropolitan community Church è nata da un’esperienza di un prete protestante che ha avuto delle vicende molto simili a me, era sposato, ha fatto coming out, ha lasciato moglie e figli, è stato sbattuto fuori dalla sua chiesa e ha fondato questo nuovo movimento globale inclusivo. La M.C. C. può essere composta da persone non cristiane, anzi è addirittura essenziale che sia così, fa parte del concetto di inclusione. È una comunità completa in tante cose e che permette a chiunque di essere sé stesso: etero, gay o trans.
Oltre ai principi di inclusione e apertura, quali sono i postulati della M.C.C.?
La M.C.C. aiuta soprattutto a far dialogare e confluire spiritualità e sessualità, ambiti spesso vissuti come antitetici. In verità, essa prevede specificatamente una ricerca esperenziale, sia pratica che teologica, su quanto di spirituale ci sia nelle relazioni sessuali. Altri aspetti importanti sono, inoltre, l’azione sociale, la giustizia, i diritti nel mondo e la diffusione del messaggio di liberazione scritto nei vangeli di Gesù Cristo.
Ma coloro che non credono in Cristo come fanno a diffondere tale messaggio?
Non importa che tu non creda, il tema è la liberazione, agire per la giustizia nel mondo, non Gesù Cristo. La M.C.C. non ha struttura gerarchica, verticistica ma più di base, più democratica, quindi si da spazio e modo alle singole comunità di auto gestirsi.
Il suo rapporto con la fede è sicuramente cambiato, dunque, non crede più in Dio? A prescindere dall’essere prete o meno, non si considera più cristiano cattolico?
Se per Dio si intende l’essere perfettissimo e assoluto, non ci credo. Se per Dio si intende la prima persona prima della trinità, non ci credo. Se per Dio si intende l’energia cosmica, vitale, la vita, l’amore, il respiro, allora ci credo. Non sono cattolico, ma sono cristiano, perché per me il riferimento a Gesù Cristo è essenziale. Per me come Mario, la Bibbia e i Vangeli sono fondamentali. Mi sento nel cammino cristiano ma non in quello cattolico, della chiesa vaticana, romana.
Come si sviluppano le celebrazioni della M.C.C.?
Ciascuna comunità si auto organizza. Non esistono riti o cose uguali per tutti perché molto è legato al cammino personale. Esistendo comunità di diverso orientamento –protestante, similcattolico, anglicano – ognuno segue diversi cammini. La comunità a cui appartengo io segue il cammino di Matthew Fox, quindi le celebrazioni noi le strutturiamo secondo la sua proposta spirituale che si articola in quattro fondamentali passaggi che lui recupera dalla tradizione medievale, mistica, legata alla meditazione, ad una spiritualità cosmica. Noi facciamo una celebrazione al mese, scegliamo un tema e lo costruiamo insieme, lo sviluppiamo secondo queste quattro vie.
Dove avvengono queste celebrazioni?
In base alle condizioni del tempo ci riuniamo in spazi aperti o nelle nostre case. Non abbiamo una sede, e attualmente non siamo interessati ad averla.
Qual è la sua opinione in merito alla recente legge Cirinnà?
Noi comunità M.C.C. siamo insoddisfatti e frustrati di questo risultato a ribasso. Come chiesa che celebra i matrimoni egualitari, per noi è fondamentale che si arrivi al matrimonio egualitario, non alle unioni civili. La M.C.C. celebra matrimoni che hanno valore legale in America, sin dagli anni ’70. Il grande problema è proprio che il nostro stato italiano, di fatto, non è laico, non garantisce uguaglianza religiosa ma da rilievo alla chiesa cattolica con la quale c’è un concordato, con la quale ha sottoscritto i patti lateranensi (secondo cui un matrimonio celebrato in chiesa ha immediatamente effetti civili). Per noi, quindi, è importante che si rivedano i patti lateranensi e il concordato. Lo Stato è laico e noi ci battiamo per il rispetto della sua laicità.
Antonietta Mente
@AntoMente
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