Renzi e il gene autolesionista del PD

Renzi visita le imprese e tira dritto sul jobs act senza dare sponda alla minoranza Pd: e quanto aiuta la dialettica autolesionista del partito democratico?

Matteo Renzi

Matteo Renzi

E’ come quando ci si mette a dieta: ogni lunedì mattina si fanno i buoni propositi per poi disattenderli già il giorno dopo. In politica vige da molto tempo la stessa regola con esiti ancora più devastanti, quando alle parole non si affiancano le decisioni concrete. In questo senso all’alba del giorno dopo la domenica, si legge la stessa formula tipo «si apre una settimana decisiva per le riforme» oppure «quella che si apre oggi è una settimana cruciale per…» per poi riscriverla nei telegiornali e nei quotidiani il lunedì successivo.

Un modo ciclico, rituale, di fare informazione, un ripetersi di dichiarazioni e di talk copia-incolla quando sarà il voto parlamentare a mettere fine al dibattito sterile di questi giorni. Avremo settimane cruciali ogni lunedì non fosse altro che la politica contemporanea si muove per narrazioni cinguettanti senza atti parlamentari sostanziali, senza votazioni che mettano un punto fermo. E come finirà con le ultime vicende riguardanti Matteo Renzi e il suo (forse) partito? Si parla già di palude per il governo e questo suona come un allarme per il premier che agli imprenditori e ai media avverte che andrà avanti e tirerà dritto proprio per evitare la trappola che ha messo nei guai i suoi predecessori. Ci si chiede se questo muro contro muro sia giusto o no e tuttavia va fatta una considerazione più generale e onesta intellettualmente.

RENZI VA AVANTI – Una riflessione a monte che ci porti al cuore politico della questione renziana: ci sbagliamo o Matteo Renzi ha vinto le primarie del PD con un forte consenso? Siamo in errore o lo stesso Renzi si è presentato in Parlamento e ha chiesto la fiducia la fiducia per governare con un programma ben definito e articolato di riforme strutturali nelle quali si parlava del jobs act? Domande squisitamente retoriche a cui si aggiunge quella decisiva: siamo sempre in contraddizione o il premier segretario ha fatto passare la sua mozione alla riforma del lavoro – dentro la direzione del PD – con oltre l’80% dei voti della stessa direzione, e dunque portando a casa il viatico per far approvare il suo pacchetto di norme? Ebbene adesso Renzi ha tutta la legittimità di fare le sue riforme peraltro concertate con gli altri partiti di governo.

articolo 18

Sì, perché il rischio autolesionista del partito democratico è un gene mai scomparso nel dna della sinistra quando è stata al governo e si fa fatica – pur con tutti i distinguo – a dare torto al presidente del consiglio quando – dice – «bisogna avere il coraggio di cambiare da noi stessi» come monito all’insostenibile tentazione della sinistra a conservare il presente, a non riformare questo paese, quanto meno a tentare un passo in avanti. Per di più il jobs act è una legge delega e quindi avrà un suo senso quando verranno scritti i decreti delegati dentro la sua cornice che è ampia proprio perché si lascia all’esecutivo la scrittura in itinere dei provvedimenti. E in quel caso il PD potrà – considerati i rapporti di forza – portare a casa le istanze sociali della sua base. Ma in sè la legge delega sul lavoro è condivisibile, lo capirebbe anche un cieco. Eccetto la minoranza autodistruttiva di un partito che – a quanto pare – ha reazioni innaturali quando governa, un partito a cui piace essere opposizione radicale, antiberlusconiana di maniera, capace di uccidere dapprima i padri (Prodi, Bersani, Letta) e adesso anche i figli (Renzi).

PD AUTOLESIONISTA?  - Cavalcare una lotta tutta interna al sindacato e che vede una lotta fra Camusso e Landini per la leadership della CGIL è un modo maldestro della minoranza PD per rigurgitare tutta l’irritazione di aver perso le primarie nelle quali si è detto chiaramente che una certa classe dirigente ha fallito clamorosamente e che adesso bisogna lasciare il tentativo ad altri. Del resto Stefano Fassina  a suo tempo ha votato la riforma lavoro della Fornero nel governo Monti nella quale si cancellava quasi del tutto l’articolo 18 ed è stato viceministro dell’economia nel governo Letta, e dentro quel contesto non ci risultano prove di riformismo entusiasmanti. Se si fa eccezione delle politiche innovative di Bersani, il resto del partito democratico non ha mosso un dito per un cambiamento degno di nota e adesso però grida allo scandalo sulle politiche del premier.

Qualcosa non va, o meglio va secondo la logica bipolare e schizofrenica di certa sinistra la quale ha il terrore di porsi dialetticamente contro i sindacati e certi status quo che davvero sembrano incomprensibili. Un autolesionismo che – se continua così – dovrebbe essere spiegato agli italiani e all’elettorato delle primarie e delle europee il quale è il depositum di credibilità a cui Renzi sta offrendo risposte secondo il suo punto di vista. Una logica che è giusta – sempre secondo il suo punto di osservazione –  a tal punto che il premier fagocita spazio politico fino ai territori del centrodestra il quale qualche esame di coscienza potrebbe pur farselo mentre viene ridotto a brandelli dal giovane Matteo, che – si badi bene – non è Salvini.

Giuseppe Trapani

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