RECENSIONE – I corpi estranei, un minimalismo che non colpisce

Locandina del film

Locandina del film

I corpi estranei è il primo film italiano in concorso presentato all’ottava edizione del Festival Internazionale del Film di Roma e il secondo lungometraggio realizzato dal regista Mirko Locatelli. Se non venisse in nostro aiuto il bel titolo, denso di significato nella sua semplicità ed evocativo di un distacco materiale fra l’Io e l’Altro, non sarebbe del tutto chiaro l’obiettivo della pellicola. Complice, senz’altro, la quasi assenza di dialoghi e la regia a metà strada tra un approccio minimalista e l’impronta documentaristica, cara al regista data la sua produzione cinematografica finora.

DUE CORPI, DUE UOMINI – La storia si lascia raccontare dalle immagini, alcune molto suggestive altre pleonastiche e inutili, che descrivono due corpi estranei che imparano a conoscersi: Antonio (Filippo Timi), trasferitosi da solo a Milano per sottoporre il piccolo Pietro a un intervento chirurgico di asportazione di un tumore cerebrale, e Jaber (Jaouher Brahim), un ragazzo di quindici anni migrato in Italia dalla Tunisia. I due si trovano nello stesso ospedale, il primo per salvare il figlio, il secondo per assistere l’amico Youssef, gravemente malato. Prima che estranei, sono due corpi soli e impauriti, e il loro incontro, per quanto difficile e ostacolato dai pregiudizi di Antonio nei confronti di quelli che chiama “gli arabi”, rappresenta la presa di coscienza dell’ineluttabile precarietà dell’uomo di fronte alla malattia.

Filippo Timi in una scena del film

Filippo Timi in una scena del film

LE INTERPRETAZIONIFilippo Timi ha da sempre dimostrato di sapersi adattare a ogni regista e qui riesce alla perfezione nel compito che gli viene dato. Parla un accento oscuro e poco chiaro (probabilmente un dialetto del Centro Italia) e recita col corpo, trovando un’ottima “intesa” con il piccolo Pietro, soprattutto nei momenti di gioco e nelle dimostrazioni di amore paterno. Altrettanto riuscito è il ruolo di Jaber, affidato alla spontaneità di un attore alle prime armi che sembra recitare se stesso al di fuori di un copione scritto.

“DIGNITA’ E PUDORE” – Sono queste le parole chiave che il regista ha scelto per spiegare il proprio film. È indubbiamente apprezzabile la coerenza stilistica, ovvero la scelta di un minimalismo radicale che non abbandona mai né la regia né la sceneggiatura. Dall’inizio alla fine del film, non viene mai svelato troppo né sui personaggi né sulla storia; le musiche dei Baustelle sono dosate con parsimonia, il ritmo è lento, a volte fino a fermarsi, per consentire a tutti gli spettatori di immedesimarsi in quei corpi comprendendone il senso di “estraneità” l’uno con l’altro e, prima ancora, il loro “estraniamento” ognuno in se stesso. Purtroppo il minimalismo porta con sé, quale contraltare, un eccessivo allontanamento dai protagonisti e dall’emotività del racconto che, per elevarsi dai temi tutto sommato un po’ scontati della paura del diverso e della malattia, avrebbe dovuto ogni tanto lasciarsi alle spalle il modello del documentario per edificarsi su una sceneggiatura più sostanziosa e meno autoreferenziale.

(Foto: movieplayer.it; cineblog.it)

 Giulio Luciani 

@julienlucien

 

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