
Real Madrid – Barcellona, lectio magistralis al calcio italiano
Real Madrid - Barcellona è una lezione ed uno schiaffo al calcio italiano da 4 punti di vista: preparazione atletica, gioco, vivaio ed atmosfera
Aggiunto da Francesco Guarino il 24/03/2014.
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Tags: barcellona, messi, real madrid, ronaldo
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Domenica 23 aprile 2014, Real Madrid – Barcellona contro Catania – Juventus e Lazio – Milan. Il Clàsico di Liga spagnola contro due match di cartello di serie A. Siamo italiani, ehi, cosa volete che abbiano registrato in top trend le tendenze di Twitter? Sicuri che volete saperlo? Ok.
Vabbè, direte voi, Twitter è un po’ particolare. A volte girano trend strani, magari figli di situazioni contingenti. Non scherziamo: a Catania si attendeva la risposta della Juventus alla Roma, è stato espulso Conte, grande tensione in campo. All’Olimpico, poi, c’era in ballo il futuro di due nobili decadute: la Gazzetta dello Sport sicuramente avrà dato il giusto risalto al nostro campionato, altro che Real Madrid – Barcellona. O forse no.
BYE BYE CALCIO ITALIANO - Ko tecnico. Nella sera in cui la Juventus fa un altro passo verso lo scudetto ed il Milan salva – almeno per un’altra partita – la panchina di Clarence Seedorf, una partita di un altro campionato monopolizza l’attenzione degli italiani pallonari e non. Il perché lo spiega ampiamente – anche se non esaustivamente – il risultato. Mentre tra il Massimino e l’Olimpico ci sono voluti 180 minuti per vedere 3 gol, al Bernabeu ne sono bastati 24. Al fischio finale di Undiano Mallenco, invece, le reti dello stadio blanco di Madrid si erano gonfiate per ben 7 volte. In uno scontro tra la prima e la terza in classifica. E, come già detto, il risultato è forse la differenza meno roboante con la nostra serie A. Analogie in Italia? Difficile trovarne. Il campionato italiano, salvo sparute eccezioni, ha perso la radice grammaticale e l’essenza del gioco: i campioni. Con essi se n’è andato via il titolo onorario di “campionato più bello del mondo”. Ma, soprattutto, è sparito il Calcio con la C maiuscola.
Le squadre che fanno razzia di titoli in Europa, le giocate che fanno sognare i piccoli tifosi, l’atmosfera degli stadi stracolmi e del pubblico che ringhia nelle orecchie dei ventidue in campo. Assenti ingiustificati. L’Italia calcistica si è suicidata a piccoli passi, seguendo tristemente il destino dell’Italia politica. Una quadruplice crisi che ha ramificazioni fin troppo chiare per poter essere ulteriormente ignorate: preparazione atletica, gioco, vivai, atmosfera.
PREPARAZIONE ATLETICA - In Italia non si corre più. Senza girarci attorno: se due squadre italiane avessero provato a giocare un match con i ritmi e l’intensità visti al Bernabeu tra Real Madrid e Barcellona, nell’intervallo avrebbero avuto bisogno della camera iperbarica invece del tè caldo. In serie A ha preso piede l’odioso cliché per cui le piccole si chiudono in 11 dietro la linea della palla e le grandi fanno girare il possesso da destra a sinistra, alla ricerca del varco. In 90 minuti, prima o poi, lo sbaglio dell’avversaria arriva, il taglio in verticale lo si azzecca, ed il banco salta. Tre punti e tutti a casa. Ma cosa succede se dall’altra parte la “piccola” non ci sta a rintanarsi nella propria area di rigore e quando attacca lo fa a testa bassa e gambe levate?
Succede che il Copenaghen – terzo nel campionato danese – strappi un punto sul proprio campo alla Juventus, e che il Galatasaray – terzo nel campionato turco – di punti ai dominatori del campionato italiano ne strappi 4 in 2 partite, eliminandoli dalla Champions League. Oppure che il Porto non si accontenti dell’1-0 a Napoli e di andare ai supplementari, ma si metta a far mulinare le gambe a 15 minuti dalla fine per portare a casa la qualificazione sul campo, perché nelle gambe i portoghesi ne hanno ancora da spendere. La stragrande maggioranza dei giocatori italiani, soprattutto nelle squadre d’alta classifica, è da anni impreparata allo sforzo atletico. Si privilegia il lavoro muscolare e quello con la palla tra i piedi, accantonando la preparazione aerobica. Le squadre italiane non corrono. Se sono chiamate a farlo, non ce la fanno. Se finiscono nel flipper, come il Milan a Madrid contro l’Atletico, il risultato è scontato.
GIOCO - Strettamente connessa alla questione della preparazione atletica, è quella della involuzione della qualità del gioco espresso dalle nostre squadre. La serie A ha esasperato il tatticismo fino ad arrivare al punto di rottura. Le grandi (e le nobili decadute) giocano con movimenti studiati a tavolino, consapevoli di affrontare squadre che difficilmente se la giocheranno a viso aperto. E non corrono, non osano, dall’alto di una non meglio identificata superiorità tecnica. Ci siamo esaltati ad inizio campionato per il filotto di vittorie della Roma, abbiamo applaudito il calcio offensivo di Montella. Giallorossi e viola, nel frattempo, hanno mostrato sì sprazzi di calcio-divertimento, sepolti però dalla rudezza di una classifica che recita rispettivamente -14 e -27 dalla capolista.
Capolista il cui destino, messo a confronto con le grandi-ma-non-solo d’Europa, abbiamo già visto a cosa ha portato. Ma il Milan “a vocazione europea” triturato dall’Atletico Madrid emergente, è probabilmente stato uno choc ancora peggiore. Inatteso, però, solo per chi ha voluto far finta che il Mondiale 2006 e i successivi trionfi in Champions nel 2007 e nel 2010 fossero fulgidi segni di rinvigorita portata del gioco italiano nel panorama calcistico mondiale. Le squadre italiane non innovano più, non sorprendono più, non giocano più bene. Si affidano nella stragrande maggioranza dei casi alla “formula Pirlo”: trequartista arretrato davanti alla difesa con ampia visione di gioco, per innescare gli inserimenti dei centrocampisti o cercare le punte col lancio in profondità. Ma Pirlo, straordinario campione, fa il compito che gli viene chiesto. E la canzone che si suona in Italia, fuori dalla penisola suona fin troppo familiare. Senza contare che – tocca dirlo – la velocità di Pirlo nel far girare palla non è quella di Iniesta e Xavi. Abbiamo passato intere stagioni calcistiche (da bar) a denigrare il tiki taka spagnolo. Guardando Real Madrid – Barcellona di stasera, abbiamo capito anche il perché: ci mancano gli uomini ed i mezzi tecnici per provare a farlo.
VIVAI - Se alle squadre italiane mancano gli uomini per fare un gioco di qualità, è anche e soprattutto perché è scattata la corsa allo straniero, sperando che sia il fenomeno da “tutto e subito”. Sono ormai oasi nel deserto le realtà calcistiche che tengono alto il livello del vivaio. E più si sale in alto, meno si vedono in serie A giovani che hanno fatto tutta la trafila delle giovanili, fino al posto da titolare. Tra i ventidue titolari del Bernabeu, quelli che non venivano dalla cantera del Real o dalla Masia del Barcellona forse si potevano contare sulle dita di una mano. Abbiamo smesso di insegnare a giocare a calcio: ci affidiamo all’intuito degli scout, al talento esotico o spalanchiamo il portafogli per il giocatore affermato. Niente più talenti coltivati in casa propria, niente campioni che nascono e crescono con il colore della maglia tatuato sulla pelle. Solo mercenari del pallone, pronti a baciare la divisa del miglior offerente o ad ascoltare le sirene più invitanti amplificate dal procur-attore di turno. E al momento di tifare Italia, facciamo fatica a riconoscerci nella maglia azzurra. Ma dai.
ATMOSFERA - Sugli stadi, tacere sarebbe forse la miglior risposta possibile. Il solo Juventus Stadium è all’altezza degli standard europei, ma l’abilità di sparuti nugoli di protagonisti della curva (vedi caso vedova Scirea) riesce a mettere in secondo piano la bellezza di un impianto, rispetto alla stupidità di cori anacronistici e sceneggiate da primadonna. Per il resto, dobbiamo lottare con i Sant’Elia con i lavori in corso, i San Paolo che si sbriciolano, gli Olimpico semivuoti e con gli spalti ad anni luce dal campo, separati da otto corsie di una pista d’atletica utilizzata una volta all’anno. Le curve sono habitat naturale degli ultras e guai a chi li tocca. Ogni tanto si permettono persino il lusso di decidere le sorti di una partita, Nocerina docet. Gli ultras di Inghilterra, Spagna e Germania sono stati “addomesticati”, dicono i duri e puri delle nostre gradinate. Eppure l’impressione che hanno dato le 90 mila bandierine bianche del Santiago Bernabeu (famiglie incluse) arroccate ad un palmo dall’erba, è stata quella di uno stadio che avrebbe divorato il tartan, se ci fosse stato a dividerli dal prato. E giocare in un’atmosfera così, con un pubblico così, fa dimenticare anche le sviste arbitrali e i gol divorati. Altro che l’Olimpico a macchia di leopardo di Lazio – Milan.

L’atmosfera del Bernabeu: anche senza ultras il calore del tifo può incendiare una partita
Se avete notato, siamo arrivati fin qui senza mai nominare né Messi, nè Cristiano Ronaldo. Non ce n’è stato bisogno. Real Madrid – Barcellona è stata una lectio magistralis davanti alla platea del calcio italiano. La capitale geografica e quella calcistica di Spagna hanno messo in mostra una condizione fisica debordante, il meglio del loro gioco, i prodotti più luminosi dei rispettivi vivai e lo hanno fatto in una delle cornici più maestose del mondo sportivo. Quando qualcun altro ci dà una lezione su come stare in campo (e su come farlo, un campo), dovremmo imparare ad essere meno italiani. E, per una volta, tacere, incassare e copiare. La strada per tornare in vetta è lunga, è ora di prenderne consapevolezza.
Francesco Guarino
@fraguarino