Raul Montanari e l’ “esordio” alla vita nuova

Copertina del libro

“La passione si nutre di inizi, la pornografia di ripetizioni, l’erotismo di sottrazioni”. È la citazione che apre il nuovo affascinante lavoro letterario di Raul Montanari, artefice e padrino dell’etichetta post noir, anche se di post noir ce n’è ben meno in L’esordiente (Dalai editore).

Ed è una sottospecie di (più o meno inconscia) massima di vita coniata dal protagonista della vicenda, Livio Aragona, cinquantenne scrittore di successo, considerato da tutti “giallista” tranne che da se stesso e docente di un seminario di scrittura creativa, la cui esistenza, non a caso proprio densa di ripetizioni, professionali e non, rischia di confermare il suo stato catatonico incastrato in meccanismi produttivi editoriali: il ripetersi incalzante di una consistente monotonia dovuta ad una vita letteraria, appunto, meccanica e categorica nei suoi continui ed instancabili sotterfugi, di comune accordo con le relative smagliature morali (“Volevo solo scrivere un bel libro”) e gli indelebili compromessi da compravendita culturale, sono proprio alcuni degli elementi di base che sostengono il buon Livio nel suo continuo tentativo di evadere dal carcere produttivo contemporaneo. Anche l’amore per Veronica, sua allieva (seppur non apprezzatissima) al corso di scrittura creativa, sfocerà, per questo, in una sorta di competizione forzata al momento delle votazioni per l’innominabile “Premio” (pena morte e sciagura). Ad aggiungersi al tutto, pur restando sempre in tema di “esordio” alla vita, vi è l’urgenza, per Livio, di far fronte alla pressione psicologica di Emiliano, compagno della sua ex moglie Silvia e suo adulatore in termini di estorsione innovativa ed originale: far del male ai “nemici” professionali dello scrittore per far credere loro che sia lui il mandante. Motivo? Qualcosa che, in ambiti diversi seppur rivolto nella stessa direzione, ha a che fare, ancora una volta, con un modo “pornografico” di condurre (o di aver condotto, nel caso di Emiliano) la propria ambigua esistenza.

Forte di un linguaggio semplice ma estremamente efficace nelle sue funzioni di comunicazione interiore di sensazioni, stati d’animo, opinioni, pensieri personali e descrizioni di vicende, nonché caratterizzato da una gestione di personaggi solo apparentemente secondari prossima alla perfezione, Montanari (maestro, in questo) stende una sorta di vero e proprio sudario per una cruda, glaciale e marcia realtà sociale, oltre che culturale. Non senza tralasciare, comunque, una sempre costante vena di autobiografismo (non è un caso, qui, se uno dei libri dell’ottimo Aragona si intitola L’ultima decade, prima nomenclatura per quello che sarebbe poi diventato, per Montanari, il controverso Che cosa hai fatto), probabilmente lanciata all’estremo attraverso minuziosi particolari legati all’essere scrittore, alle relative abitudini personali, alle quotidiane riflessioni, ai metodi di lavoro e alle massacranti convinzioni autoesaminanti (“Ogni scrittura diventa autbiografica; è sempre della tua vita che parli, anche quando cerchi onestamente di nasconderti dietro le storie e i personaggi”, è l’insegnamento di Aragona/Montanari).

Raul Montanari

La stanchezza interiore (elemento, questo si, “post noir”) degli eccessi di apparenza e di “ripetizione”, anche nell’ambito delle partecipazioni televisive in trasmissioni tanto di invenzione quanto profondamente radicate e derivanti dalla realtà odierna, in stretto legame con l’esigenza di vivere davvero sia delle proprie passioni che, soprattutto, alla luce delle propria essenza di liberi appartenenti al genere umano (fuori da cospirazioni interpersonali e fuori da futilità da libero mercato), fanno di L’esordiente una sorta di romanzo di formazione postdatato, apocrifo, tardivo, impregnato di rimpianto per una vita di successo ma costretta in gabbie di perpetua assoluzione da colpe mai espiate.

Una sorta di esorcismo relativo alle scelte professionali emerge con saggia ferocia distintiva nella perfetta descrizione delle dinamiche editoriali: ironia, stizza, sarcasmo, ribrezzo e consapevolezza si miscelano allo scopo di elencare professionisti svogliati e di dubbia fattura, stagisti malpagati e superstizioni per cui il termine “provinciale” rischierebbe di trasformarsi in complimento. Il tragicomico gioco della forzata attribuzione di etichette o diciture di genere (assimilabile alla realtà delle discussioni il cui protagonista è, da qualche anno a questa parte, Montanari stesso) prende piede in una precisa autoreferenzialità (“Il problema è che non c’è un nome per definire i libri che scrivi”), mentre spicca, all’evidenza dei più, un utilizzo metalinguistico della stessa professione letteraria per mezzo di quel libro nel libro, Il vizio della solitudine candidato al “Premio”, la cui trama quasi gioca a coincidere, in alcuni punti, con quella sviluppata da Montanari stesso, finendo per prendere quasi le sembianze di anticipazione da immagine cinematografica nell’ambito dello sviluppo narrativo globale.

“E ci sarà il silenzio conquistato o temuto, e volti sconosciuti, la memoria dove rifugiarmi sempre”: è il testamento da vivo di un uomo che sembra voler uccidere una parte di sé per ritornare agli “anni degli schiaffi e delle corse in perdifiato, i tigli e i cani dietro i cancelli, l’odore dell’asfalto d’estate quando piove”. Un “esordire” alla vita nuova una volta affrontati gli ostacoli, più o meno metaforici, delle burrascose esistenze umane senza una precisa consapevolezza futura. Finché “il poco che rimane sarà molto”, ma per cui tentare di (soprav)vivere “varrà la pena”.

Stefano Gallone

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