Questa settimana nei negozi di dischi: gli Amplifier e il ritorno di Wayne Shorter

Amplifier Echo Street (kscopemusic.com)Dopo aver assaggiato, assorbito, digerito e, a tratti, vissuto il nuvo (a nostro avviso) splendido e oscuro lavoro di Nick Cave al fianco dei suoi ritrovati Bad Seeds (Push the sky away), passiamo oltre e cerchiamo di sondare il territorio qualitativo sia in termini di riscoperte veterane che, fin quanto e fin dove possibile, in ambito di proposte più recenti ma non per questo meno interessanti. E allora, proprio in luce di tale concezione, non può passare inosservato il tanto atteso ritorno di una delle band forse meno conosciute sul pianeta eppure archiviabile, senza alcuna ombra di dubbio, tra le proposte più interessanti in assoluto almeno relativamente all’ultimo decennio. Stiamo parlando degli inglesi Amplifier e del loro nuovo Echo street. Ne avevamo, il mese scorso, accennato l’imminente uscita e oggi, dopo i non pochi anche se soliti travagli burocratici relativi al settore, l’album sembra proprio essere disponibile nei negozi in triplice veste, ovvero cd, cd in edizione “box” limitata e doppio vinile. Una nota di merito va alla casa discografica Kscope di mister Steven Wilson & company, anche solo per l’essere riuscita a convincere forse il gruppo davvero più indipendente della storia (si veda la produzione e la distribuzione completamente in proprio di quel capolavoro di progetto generale che era il doppio The octopus) a sottoscrivere, tra l’altro anche volentieri, un regolare contratto. Ad ogni modo, si tratta del quarto capitolo di una carriera brillante anche se non prolifica come vorrebbe (e dovrebbe) essere a causa di varie divergenze con case discografiche maggiori (appunto). Fatto sta che il monumentale space-hard-rock di Sel Balamir e soci, anche (se non soprattutto) questa volta merita la classificazione di “particolare” in quanto sinonimo, anzi risultato decisivo, di una crescita esponenziale in quanto concezione del dato artistico in base a quello che realmente è e deve essere. Praticamente obbligatorio, così come tutti i tre lavori precedenti.

Cambiando completamente rotta stilistica, anche se restando, in qualche modo, nell’ambito specifico dei ritorni più o meno importanti, i ben più internazionalmente noti Eels fanno nuovamente capolino sugli scaffali con il nuovo Wonderful glorious a tre anni di distanza dal precedente Tomorrow morning. Questa decima prova discografica in studio proveniente dalle meningi della band del tormentato Mark Oliver Everett (per gli amici Mr.E), dunque, arriva sulla scia di due interi anni trascorsi quasi interamente sui palcoscenici di tutto il mondo. In tal senso, dunque, si tratta di una pubblicazione stilisticamente molto più diretta rispetto ai tasselli predecessori proprio grazie ad un rinnovato “appeal” per un certo groove o certi riff dal sapore ben più acido rispetto a quelli estrapolati dagli ultimi anni di esperienza. Forti, insomma, di una rinnovata e, forse, ben più pura energia probabilmente anche meno intrisa di quei mostri traumatici autobiografici che ne avevano fatto una vera e propria valvola di esorcismo, gli Eels hanno dato alla luce un prodotto convincente anche se, come ovvio per natura di un simile stato di cose artistiche, ben distante da primi semi-capolavori quali Souljacker o Electro-shock blues.

Wayne Shorter Without a net (1.bp.blogspot.com)Saltando ancora di sponda in sponda, ritroviamo con molto piacere, stavolta, un vero e proprio grande vecchio. Proprio così. Se, infatti, l’ombra lasciata sull’asfalto Usa infuocato da parte di soggetti quali Bob Dylan o Bruce Springsteen non fosse risultata così insormontabile, quell’enorme cantastorie rock-blues che è sempre stato il signor Elliott Murphy non sarebbe stato, forse, costretto a trasferirsi in quel di Parigi pur di vivere in santa pace senza il tormento di fantasmi di un passato mai vissuto veramente fino in fondo. Eppure, dischi come l’esordio Aquashow (1973), il successivo Lost generation (1974) e altre perle come, tra le altre, Just a story from America e Murph the surf sono, ad oggi, ancora qualcosa di cui l’intera storia del rock non può e assolutamente non deve fare a meno per nessuna ragione al mondo (inettitudine di ristampe mancate in primis). Fatto sta che il buon vecchio “Murph” ha ancora e sempre cose molto interessanti da dire (anche quando le lascia semplicemente percepire da piccoli palchi di legno al termine di quelle due ore e mezza di rito concertistico, momento in cui, a volte, sceglie di scendere da solo con la sua sei corde acustica in platea privo di una qualsiasi amplificazione pur di cantare la sua ultima canzone abbracciato a te che non puoi fare altro se non seguirlo come se si permanesse, fianco a fianco, sulla su un lotto di sabbia umida accanto ad un falò). Il suo nuovo It takes a worried man, quarantacinquesimo (!) lavoro in studio (e scusate se è poco), prosegue il cammino umano al suono del rock’n’roll più puro e votato al concetto stesso di “cantastorie”, espressione di uno stato d’animo che ormai, al fianco di fedeli scudieri come Olivier Durand e i suoi The Normady All Stars (con l’aggiunta del figliol prodigo Gaspard Murphy sia agli arrangiamenti che alla produzione) sembra voler vivere davvero vita eterna. A ragione.

Per chiudere davvero in bellezza, infine, non si può che elogiare un’altra grandissima personalità artistica anche se appartenente ad un’ambientazione ben differente (anche se non poi così tanto) quale quella jazz. È infatti da segnalare assolutamente un altro grande e graditissimo ritorno, ovvero quello del signor Wayne Shorter, tra l’altro su prestigiosissima etichetta Blue Note. Già sassofonista e cofondatore (assieme al geniale tastierista Joe Zawinul) di una delle band più incredibili in ambito di jazz-rock-fusion, vale a dire gli epocali Weather Report (presos i quali svolse i suoi eccelsi servigi anche un certo Jaco Pastorius), di per sé derivanti da una session band che il signor Miles Davis mise in piedi nel 1971 per le registrazioni di un disco di fondamentale importanza (per l’evoluzione del concetto stesso di composizione musicale) quale il doppio Bitches brew, il buon Shorter ha all’attivo anche un bel po’ di dischi da solista, tra cui almeno due capolavori quali Juju e Speak no evil. Ultimo nella lista cronologica, ma non in termini qualitativi, è il suo nuovo Without a net, in arrivo, dopo dieci anni di distanza dal precedente Alegria, a far capire realmente come stanno le cose: la missione, tutto sommato, riesce bene se ci si presenta al fianco di vecchie ma inossidabili glorie come John Patituccii al basso, Brian Blade alle pelli e Danilo Perez al pianoforte.

Buon ascolto.

(Foto: kscopemusic.com / 1.bp.blogspot.com)

Stefano Gallone

@SteGallone

Share and Enjoy

  • Facebook
  • Twitter
  • Delicious
  • LinkedIn
  • StumbleUpon
  • Add to favorites
  • Email
  • RSS

Ti è piaciuto questo articolo? Fallo sapere ai tuoi amici

Lascia un Commento

L'indirizzo email non verrà pubblicato.

È possibile utilizzare questi tag ed attributi XHTML: <a href="" title=""> <abbr title=""> <acronym title=""> <b> <blockquote cite=""> <cite> <code> <del datetime=""> <em> <i> <q cite=""> <strike> <strong>

 
Per inserire codice HTML inserirlo tra i tags [code][/code] .

I coupon di Wakeupnews