
Questa settimana al cinema
Settimana ricca di proposte da grande schermo, questa che volge al termine. Anche per quanto riguarda i grandi nomi, primo su tutti il maestro Steven Spielberg, di nuovo dietro la macchina da presa per dare alla luce il suo nuovo War horse (con Jeremy Irvine, Emily Watson, Peter Mullan), adattamento cinematografico dell’omonimo romanzo per ragazzi firmato Michael Morpurgo e datato 1982. Abbastanza fedelmente al testo di origine, la diegesi avanza raccontando la storia di Joey, un puledro esuberante cresciuto libero e selvaggio nel cuore della campagna inglese. Separato fin da subito dal grembo materno e acquistato per trenta ghinee dal ruvido ed alcolizzato agricoltore Ted, il suo destino sembra riferirsi unicamente a quello di animale da soma se non proprio da bestia utile a smuovere l’aratro pur di risollevare le sorti della famiglia a cui ormai appartiene, i Narracott. Sarà, però, Albert, giovane e determinato figlio di Ted, a prendere con sé l’animale diventandone un inseparabile compagno di avventure. Ma i lì a poco, i pesanti debiti e l’incombenza della guerra arriveranno a bussare alla porta di casa. Per far fronte al rischio di cessione della fattoria, il padre vende il Joey ad un giovane capitano inglese, facendone, così, a tutti gli effetti un servizio da combattimento. Il capitano promette, però, ad Albert che, a conflitto terminato, provvederà a riportarglielo in men che non si dica. Ma la guerra, ostinata ed implacabile, minerà la vita del capitano che lascerà il cavallo abbandonato a se stesso. Escursione spielberghiana ben lontana dai confini della fantascienza da effetto speciale per rientrare nei ranghi di storie cariche di emotività, come stesso il maestro statunitense ha già saputo fare in diverse altre occasioni. Da testare.
Come, forse, da testare (stavolta in tema anche di effetti speciali) potrebbe essere anche In time (regia di Andrew Niccol, con Justin Timberlake, Amanda Seyfried, Cillian Murphy) se non fosse per i dubbi destati dalla presenza dello stesso Timberlake ancora una volta in veste di (fino a che punto) attore oltre che di personaggio di spettacolo musicalmente ai limiti del circense (anche lui). Ad ogni modo, la narrazione si snoda attraverso una storia ambientata in un futuro non eccessivamente lontano, tra le cui linee temporali il gene dell’invecchiamento può essere deliberatamente neutralizzato. Viene, dunque, risolto il problema della morte, ma ad una simile soluzione corrisponde la nascita di un nuovo sostanziale problema: l’inarrestabile sovrappopolazione. Il tempo viene elevato a vero e proprio lusso con tanto di tasse da pagare per continuare a vivere in eterno. Pena, l’uccisione istantanea. Ne deriva, ovviamente, che i ricchi non avranno alcun problema, mentre i più poveri e deboli sono costretti a negoziare. Buona l’idea di partenza ma chissà il contenuto effettivo.
Di gran lunga più interessante (almeno a primo contatto) sembra essere, invece, E ora parliamo di Kevin (regia di Lynne Ramsay, con il sempre bravissimo John C. Reilly, Tilda Swinton, Ezra Miller), un potenzialmente buon dramma incentrato, appunto, su Kevin, ragazzino che la madre, Eva, ha scelto di crescere accuratamente rinunciando di punto in bianco alle personali ambizioni professionali e al suo folle amore per la città di New York. In provincia e in totale tranquillità, però, il rapporto tra madre e figlio continua ad essere complicato esattamente come in precedenza. Kevin non smetteva mai di piangere da neonato, così come da bambino non parlava e non faceva altro che disobbedire. Il tutto per provocare dolore e spossatezza nell’animo della madre senza un preciso motivo portante, fino al punto in cui lo stesso Kevin, a sedici anni, provoca una vera e propria tragedia tra le mura della sua scuola. Sarà compito di Eva, dunque, cercare di capire e, fin dove possibile, porre rimedio alle sue gravi mancanze nei confronti tanto del figlio quanto di se stessa.
Sul genere commedia, invece, ci viene incontro (non si sa se effettivamente a buon fine) Jack e Jill (regia di Dennis Dugan, con Adam Sandler, Katie Holmes e, addirittura, Al Pacino), storia di un giovane pubblicitario di successo felicemente sposato e padre di un figlio per il quale stravede. La sua unica grande ossessione, però, è la sorella, perfettamente identica a lui (un Sandler in versione quasi Tootsie, insomma) anche se più grassa, goffa e petulante. Jill, dunque, è un problema che va ad aggiungersi a quello di convincere Al Pacino (nelle vesti di se stesso) a diventare testimonial di una catena di caffé. La donna, dunque, prende letteralmente d’assalto la casa del fratello senza la minima intenzione di cedere il passo.
Infine, tornando ad un filone stilistico ben più interessante e propositivo, arriva sugli schermi una nuova fatica di Alexander Payne, già apprezzatissimo autore di pellicole importanti come A proposito di Schmidt e Sideways. Questo nuovo Paradiso amaro, dunque, è ambientato alle Hawaii per ben delinearne l’evidente menzogna dell’essere etichettate come un vero e proprio paradiso in Terra (in questa sorta di disillusione tragicomica circa l’esistenza, Payne è abbastanza maestro). Matt King (George Clooney), dunque, vede la moglie Elizabeth entrare in coma in seguito ad un incidente. Stando a quanto riportano le cure mediche, la donna non si riprenderà più. L’unica alternativa è quella di staccare le macchine che la tengono ancora in vita. Da qui emerge il profilo di Matt: un uomo che ha sempre messo la vita professionale prima del’affetto per le sue due figlie, ragazze che, praticamente, lui non conosce più. Il suo dolore diventa, poi, anche frustrazione quando scopre che la moglie aveva una relazione extraconiugale ed era in procinto di chiedergli il divorzio. Nel cercare, dunque, l’amante della sua consorte, Matt può avere anche l’occasione di analizzare se stesso.
Buona visione.
Stefano Gallone