‘Napoli.Interno.Giorno.’: i luoghi (non) comuni del teatro

Il dottore Marino (Emilio Massa) istruisce il sostituto Spedalieri (di profilo, Roberto Cardone) per le strade di Napoli

Il Napoli Teatro Festival Italia è, sin dalla sua prima edizione, una manifestazione che gode del più grande teatro naturale che si possa immaginare: la città di Napoli. Ed è proprio alla spettacolarità di questo palcoscenico a 360 gradi che l’organizzazione, sin dalla prima edizione del 2008, ha puntato senza remore. La Darsena Acton, il Tunnel Borbonico, le catacombe di San Gennaro, solo per citare un’infinitesimale parte delle location “prestate” al teatro in questi anni. Ma c’era un altro spazio ancora che non era stato esplorato o, almeno, non adeguatamente: Napoli stessa. O almeno non esplorato così adeguatamente fino alla messa in scena di Napoli. Interno. Giorno. Visioni oltre… ed altre di una città 

Il lavoro del CRASC (Centro di Ricerca sull’Attore e Sperimentazione Culturale), in prima assoluta al NTFI per ideazione e regia di Marco Luciano, è uno spettacolo nello spettacolo, che però non sottomette i contenuti recitativi alla spettacolarità naturale dell’ambientazione. Anzi, li fortifica vicendevolmente. A cominciare dalle poche righe di convocazione per gli spettatori: lo start è infatti l’anonimo ed un po’ diroccato Palazzo Diomede Carafa in via San Biagio dei Librai. In piena Spaccanapoli, a due passi da san Gregorio Armeno e dalla Napoli sotterranea. Ma chi si aspetta il “solito” viaggio tra le meraviglie nascoste verrà piacevolmente scontentato.

Si inizia in uno stanzone, anonimo studio del dottore Carmine Marino (Emilio Massa), medico di base angustiato da pazienti iperossessivi e che sopravvive e lucra grazie agli odiosi espedienti che hanno reso la napoletanità negativamente celebre nel mondo: “creste” su ricette, analisi, visite specialistiche. Senza tralasciare ulteriori strappi alla deontologia professionale in cambio di sfacciati flirt con avvenenti pazienti. Per il dottore è giunto però il tempo delle ferie e nello studio arriva il sostituto Biagio Spedalieri (uno straordinario Roberto Cardone). Napoletano sì, ma reduce da una lunga esperienza lavorativa a Milano, lì dove i mezzucci di Marino sono lungi dall’essere quotidianità.

Lo scontro etico ed esistenziale tra le due mentalità è inevitabile, come sembra inevitabile propendere per la simpatia politicamente scorretta di Marino, contro la nordica rigidità di Spedalieri. Ma il viaggio nel cuore di Napoli inizia lì: il medico ed il suo assistente si incamminano infatti per l’ultimo giro di visite a domicilio e con essi gli spettatori. Con la più totale naturalezza, senza nessun invito ad uscire e seguire la scena, se non quando sono gli spettatori stessi a rendersi conto di dover seguire a piedi ciò che accade. Ed è così che si entra in casa Castaldo, per assistere al dramma della morte del capofamiglia e al tragicomico scontro generazionale tra la figlia del defunto (una fisicamente e vocalmente dirompente Diana Di Paolo), aspirante cantante jazz, e suo figlio (Marco Montecatino), nipote dell’estinto nonché cantante neomelodico.

Gli spettatori sono in piedi, attorno alla tavola del soggiorno, ad assistere ora impassibili, ora scossi, ora divertiti a ciò che accade sotto i loro occhi, senza che gli attori interagiscano mai pienamente con loro, come invece accade (troppo?) spesso negli spettacoli itineranti. «Lo spettatore lo intendiamo come Point of View – scrive convinto il regista Marco Luciano nella nota introduttiva - 25 punti di vista, come 25 telecamere».

E, all’uscita da casa Castaldo, le 25 telecamere viventi si addentrano nel cuore della Napoli “vera”. Non quella iconografica dei grandi paesaggi e dei tesori nascosti, ma quella dei vicoli, delle botteghe, degli odori, dei vasci. Della gente che osserva stupita un codazzo di spettatori col badge appuntato sul petto, mentre i due medici costeggiano via dei Tribunali e si addentrano lì dove solo i motorini passano (senza averne ovviamente diritto), tra sacchetti di spazzatura e arzille vecchiette – borsa della spesa alla mano – che sgomitano inconsapevoli nel gruppo per farsi largo. È così che si arriva a casa di Lucia (Beatrice Baino), detenuta agli arresti domiciliari sorpresa in improbabile déshabillé romantico dall’arrivo dei due medici. Il cui amante clandestino altri non poteva che essere l’agente di sorveglianza, tra le cui braccia la donna cerca una nuova vita.

Il dottore Marino a casa di Lucia (Beatrice Baino)

Ed è così – passando attraverso l’incursione a sorpresa della paziente “trascurata” dal dottore Marino e l’improvvisata del venditore di calzini (che vien quasi voglia di fermare, tante è la credibilità partenopea con cui irrompe nel vicolo pronto a tuffarsi nel cuore del plot) – che si arriva anche a casa della signora Titina Arcella (una meravigliosamente genuina Anna Troise), in un appartamento sobriamente elegante nel quale si viene naturalmente costretti a sedersi ad una tavola splendidamente imbandita. Alla quale Jelena, badante della signora Titina ed amante di Marino, servirà a tutti gli spettatori il più classico e delizioso dei ragù napoletani. Le storie della giovane polacca e della padrona di casa si intrecciano, tra un boccone di pasta ed un sorso di vino.

Come finirà? Con un classico colpo di scena e con un lento ed inesorabile ribaltamento della prospettiva, che passerà dagli occhi sgranati di casa Castaldo, al caffè prima rifiutato e poi sorseggiato di Lucia per approdare all’emozionante “buon appetito” finale con cui lo spettacolo chiude il suo cerchio perfetto. Una Napoli ripudiata che però, inevitabilmente, finisce per travolgere ed entrare dentro senza ritegno.

Cosa rimane? La sensazione di non aver fatto nient’altro che una passeggiata tra i luoghi comuni è forte. Il medico opportunista, la sceneggiata familiare, la storia d’amore detenuta-poliziotto, l’adorabilmente ingenua (ma non tanto) vecchietta napoletana. Ma bastano i primi, pochi, passi al di fuori dell’ultima location per rendersi conto che non si trattava di luoghi comuni, ma, più comunemente, di un luogo. Di quella Napoli che ti guarda stranita e sbalordita solo perché cammini in fila indiana in un vicolo nel quale, tutt’al più, ci si abita.  Di quella Napoli che ti urla nelle orecchie le imperdibili offerte del ristorante all’angolo, che senti sulla pelle nei contatti forzati della calca sull’R2, che ti entra nel naso direttamente dalle finestre spalancate e che ancora stai assaporando nelle papille. Uno spettacolo, cinque sensi. A pensarci bene, di comune c’era davvero ben poco.

Francesco Guarino
@fraguarino 

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