
Le vaghe promesse di Berlusconi e il sogno delle due aliquote
La riforma fiscale promessa dal premier da un lato eccita i fedelissimi berlusconiani, dall’altro semina perplessità fra l’opposizione e i sindacati
di Marco Luigi Cimminella
La crisi economica internazionale, per quanto possa essere mascherata ed ottimisticamente rivalutata, è profonda e lacerante. La fiducia, che Berlusconi poneva in quella rapida ripresa economica che avrebbe dovuto caratterizzare l’economia italiana, si è rivelata immotivata e mistificatrice, nonché strumento per confortare gli animi turbati dei cittadini del Belpaese.
Scrutando con occhi meno assopiti gli anni trascorsi e leggendo con spirito critico la storia che ha contrassegnato la finanza pubblica italiana negli ultimi 40 anni, noteremo che le promesse sono tante, ma le azioni concrete sono poche. Senza perderci nei meandri del passato, fin dagli anni settanta del XX sec., minacciata dalla crisi petrolifera dovuta al cartello economico dell’OPEC e traviata da aspri contrasti sociali, l’Italia ha visto crescere il disavanzo generato dall’eccesivo aumento delle spese rispetto alle entrate che con il tempo ha finito per alimentare il volume del debito pubblico italiano, spingendo i diversi governi ad emettere titoli di stato per finanziare il fabbisogno statale.
Nel corso degli anni ’80, pur riducendosi la spesa pubblica, a causa di un aumento dei tassi di interesse reali e monetari, che comportò una crescita della spese per interessi, quella complessiva andò sempre più ad aumentare accrescendo l’indebitamento. Nel 1992 l’Italia sottoscrisse il trattato di Maastricht, ma per entrar a far parte dell’Unione monetaria fu necessario attuare un processo di risanamento finanziario che iniziò con il governo Amato e venne portato a termine dal governo Prodi. Attraverso una procedura di inasprimento della pressione fiscale e di contrazione della spesa pubblica, l’Italia raggiunse i parametri di Maastricht arrivando ad una pregiudiziale per l’ammissione all’Unione economica e monetaria. L’attuazione di queste politiche naturalmente generò un’acuta avversione popolare alla pressione fiscale: difatti il successivo governo di centro-destra, riducendo moderatamente la tassazione e facendo uno smodato uso della spesa pubblica, finì con nutrire la crescita dello stock del debito pubblico che rappresenta uno dei più grandi problemi non solo per l’economia italiana, ma anche per quella degli altri paesi europei.
In seguito all’adesione al Patto di Stabilità e Crescita – quello che vincolava i paesi europei ad impedire che il proprio debito pubblico varcasse la soglia del 60% del PIL - nel 2005 era pari al 106% del Prodotto Interno Lordo e, secondo quanto stimato dall’Ocse, alla fine del 2010 il rapporto debito pubblico/PIL sarà del 120%. In un certo senso il tallone d’Achille italiano sta soprattutto qui. In un periodo di forte recessione internazionale, le vaghe promesse di riduzione delle imposte espresse e poi smentite dal capo del governo sembrano sempre più velleitarie. L’introduzione di due aliquote fiscali per l’Irpef, al 23% e al 33% taglierebbero una buona quantità di risorse che permetterebbero alla casse dello stato di respirare, rendendo sempre meno sopportabile l’intollerabile peso del debito pubblico italiano. In più, questo sistema gioverebbe solo alle famiglie con un elevato reddito. Infatti, gli scaglioni e le aliquote Irpef relative all’anno fiscale 2009 mostrano come lo scaglione di reddito più basso (da 0 a 15.000 euro) viene colpito da un aliquota fiscale pari al 23%, mentre quello più alto ( oltre 75.000 euro), da un aliquota pari al 75%. Con questa riforma del sistema tributario, l’aliquota che colpirebbe le classi economiche meno abbienti rimarrebbe invariata, mentre si ridurrebbe di molto (dal 75% al 33%) quella che colpirebbe le classi più agiate. La Cgil ha di fatto protestato, chiedendo al governo di portare la prima aliquota Irpef dal 23% al 20%.
In definitiva, la riforma tributariatanto agognata dal governo, sembra sempre più lontana dall’effettiva realizzazione. Assomiglia piuttosto a quelle antiche promesse di giustizia sociale ed equità fiscale che con i soliti modi demagogici i politici di ogni colore e bandiera, alternandosi al potere, hanno espresso per guadagnarsi immeritatamente il consenso elettorale.