
Scuola italiana, com’era e com’è: storia di una crisi
Si avvicina la chiusura della scuola per le vacanze estive: alcune riflessioni sull'insegnamento, sui rapporti tra scuola e famiglia e tra genitori e figli
«La libertà non può essere “concessa”: fa parte della natura umana e deve essere coltivata come uno dei tratti essenziali del carattere. In ogni bambino è attivo il bisogno pressante di indipendenza: basta permettergli, per mezzo di una cultura attenta, di svilupparlo come parte integrante dello spirito umano. Finché l’educazione continuerà a seguire le linee di una sottomissione forzata, le condizioni attuali si perpetueranno e l’umanità continuerà a essere costituita di molta gente che parla di libertà, ma di pochi uomini liberi» diceva Maria Montessori nel 1951 a proposito dell’educazione scolastica e, a distanza di sessantacinque anni, la situazione non sembra migliorata, semmai peggiorata.
LA “SOTTOMISSIONE FORZATA” DELLA SCUOLA DI OGGI - La «sottomissione forzata» non è più, naturalmente, quella delle punizioni corporali della scuola anni ’50: oggi avviene attraverso le interrogazioni, i compiti a casa, i giudizi, le verifiche, i test, insomma attraverso le “procedure burocratizzate” della scuola, e perciò sottratte al contributo creativo dello studente. Prendiamo le interrogazioni nella scuola elementare: i bambini di quinta, ad esempio, studiano sui libri di testo nei quali i temi trattati sono divisi per categorie; in scienze, il corpo umano non è trattato come un tutto unico e connesso dal quale si dipartono i vari organi e apparati, ma come se ogni parte del corpo fosse qualcosa a sé stante e lontana dalle altre. Prima dello studio vero e proprio, però, c’è la spiegazione dell’insegnante per l’interrogazione: una volta ascoltata la spiegazione e studiata la lezione sul libro, si procede con l’interrogazione, cui seguirà il voto.
Tutto nella norma, si dirà: si tratta del classico sistema scolastico insegnamento-apprendimento legittimato dalla comunità scientifica e consolidato dalla tradizione. Quello che non è nella norma, se si va un po’ più a fondo della questione, è che gli alunni sono così abituati, addestrati, alla ripetizione – naturalmente “con parole loro” – della lezioncina ascoltata e poi (ri)letta sul libro. Così i bambini si abituano a credere che pensare significhi riformulare con parole proprie qualcosa di già detto, innescando in loro l’incapacità a esprimere valutazioni personali – anche di se stessi -, a proporre interpretazioni che non siano parafrasi di quelle esposte nei libri di testo, a elaborare pensieri originali e creativi. Insomma, invece di offrire un pensiero complesso e critico, la scuola offre modelli precostituiti da memorizzare e copiare. Chi non sa rispondere o non trova le “proprie” parole alle domande durante l’interrogazione viene punito con un brutto voto: non si è studiato a sufficienza, o non si è introiettata la spiegazione dell’insegnante e la lettura del testo. Ma allora il detto antico «sbagliando s’impara» non ha alcun valore? Come scrive Maurizio Parodi, dirigente scolastico e pedagogo «la possibilità di sbagliare è un indicatore della qualità educativa di un’esperienza, che si accompagna alla capacità del docente di non drammatizzare lo sbaglio, di valorizzarlo in senso critico, di farne occasione di autoanalisi e di esplorazione, anche creativa, dei “possibili”, di superamento dei propri limiti e dei limiti dati».
Anche suddividere continuamente gli argomenti da studiare in segmenti sempre più piccoli, isolandoli e considerandoli uno alla volta, senza connessioni col resto di loro, senza sperimentazioni “dal vivo”, senza capirne la complessità problematica, semplifica in modo astratto e artificiale la visione della realtà dei bambini, allontanandoli ineluttabilmente dagli eventi – e dai problemi – del mondo reale ai quali, tra l’altro, la scuola e gli insegnanti vorrebbero invece riferirsi.
Gli unici momenti e gli unici luoghi in cui i bambini e i ragazzi possono sperimentare se stessi e le relazioni con gli altri sono quelli nei quali il controllo degli insegnanti è meno pressante: l’intervallo, il cortile, i servizi igienici, la mensa scolastica. Ma accade spesso che, proprio in questi momenti e in questi luoghi, i bambini e i ragazzi si agitino a tal punto da mettersi a litigare furiosamente così che sia necessario l’intervento autoritario dell’insegnante che, di norma, punisce tutta la classe. Questo fenomeno lo spiega bene Maurizio Parodi: «La rimozione dei vincoli comportamentali imposti dall’onnipresenza dell’insegnante può produrre effetti paragonabili a quelli che si otterrebbero praticando un piccolo foro nella parete di una diga, tanto più intensi e travolgenti quanto maggiore sia la massa di energia accumulata a ridosso dello sbarramento artificiale, quanto più forte sia la pressione esercitata sulle pulsioni emotive retrostanti – bisogni, desideri profondi e vitali -».
SOGGETTI A RISCHIO ADHD O BAMBINI? - A proposito dei vincoli comportamentali imposti a scuola – stare seduti composti, non distrarsi e non distrarre, non chiacchierare, non interrompere l’insegnante mentre sta parlando, alzare la mano prima di parlare, ascoltare, ecc. – è interessante notare che, negli istituti scolastici, l’unico modo per formulare una diagnosi di ADHD – Attention deficit hyperactivity disorder, cioè il cosiddetto disturbo dell’attenzione e iperattività – è quello di compilare un questionario che il docente o lo psicologo riempie guardando “il soggetto a rischio” durante un normale giorno di lezione. Queste sono alcune delle domande cui il docente o lo psicologo o il medico deve rispondere mentre guarda il bambino: Muove le mani o i piedi o si agita sulla sedia? É facilmente distratto da stimoli esterni? Ha difficoltà a giocare quietamente? Spesso chiacchiera troppo? Spesso spiattella le risposte prima che abbiate finito di fare la domanda? Spesso sembra non ascoltare quanto gli viene detto? Spesso interrompe o si comporta in modo invadente verso gli altri per esempio, irrompendo nei giochi degli altri bambini?
Se il paradosso di queste domande non è evidentissimo a una prima lettura, cerchiamo di rispondere con ragionevolezza ad alcune di loro: Muove le mani o i piedi o si agita sulla sedia? Se è vivo e in salute, evidentemente sì.
É facilmente distratto da stimoli esterni? Bisognerebbe capire quanto siano interessanti gli stimoli “interni” (leggi le spiegazioni degli insegnanti).
Spesso spiattella le risposte prima che abbiate finito di fare la domanda? Bene, è un/a bambino/a acuto/a e perspicace, sicuramente partecipe a quanto viene detto in classe.
Potrei andare avanti, ma credo che tanto basti.
Questo processo tradizionale di insegnamento-apprendimento non è estraneo nemmeno alla famiglia e alle altre aggregazioni sociali: così come l’insegnante verifica e premia i miglioramenti e punisce gli errori, così fa la famiglia e l’eventuale o gli eventuali istruttori di sport.
LA FAMIGLIA - Anzi, ancora prima che i bambini entrino nel mondo della scuola e delle attività sportive, quante volte interveniamo per “fare al posto loro”? Pensiamo soltanto a un bambino che provi più volte ad allacciarsi le scarpe da solo senza riuscirci: quante volte lo facciamo provare prima di dirgli “dai, lo faccio io così non perdiamo tempo?”. Ma è proprio della “perdita di tempo” che i bambini e i ragazzi hanno bisogno, di quel tempo che permetta loro di esplorare se stessi e le proprie capacità, di provare, di sperimentare, di migliorarsi. E invece siamo sempre di fretta, sempre a intimare loro di sbrigarsi, ossessionati dalle incombenze quotidiane.
L’idea che sta alla base di questi comportamenti è quella che l’essere umano abbia bisogno di imparare attraverso la spiegazione di qualcuno più esperto: in pratica, che la conoscenza, il sapere possa essere solo trasmesso. Ma non è così: un bambino piccolo che impara a camminare o a parlare non ha avuto nessuna trasmissione di queste capacità. S’impara a camminare, a parlare e a giocare per esperienza diretta e interagendo con l’ambiente; a volte, anche con grandi difficoltà.
E sono proprio le difficoltà quelle che sembrano essere sparite dalle relazioni: in famiglia come nella scuola.
LA SCUOLA COM’ERA E COM’E’ - Le prime battaglie per cambiare la scuola sono cominciate nel 1968, continuando e accentuandosi nel 1977, fino ad arrivare alla riforma del 1994 e poi all’inqualificabile Riforma Gelmini. Nel ’68 la scuola era ritenuta troppo severa e autoritaria, vi s’insegnavano teorie astratte totalmente lontane dalla realtà, in particolare dal mondo del lavoro; alla scuola di quegli anni si rimproverava di essere soltanto per le classi elitarie, e si chiedeva invece una scuola per tutti. Questa battaglia, che peraltro è stata stra-vinta, ha prodotto, nei decenni a venire, una scuola uniformante, non punitiva – nel senso che non boccia -: soprattutto con la Riforma del 1994 la scuola è stata trasformata per favorire i ragazzi in difficoltà attraverso il piano di accoglienza-recupero-debito da colmare, con cui tutti sono andati avanti, indistintamente, senza alcuna differenza individuale.
Questo tipo di scuola, che come ho detto è nata in seguito alle battaglie del ’68 affinché diventasse una scuola per tutti, è diventata sì una scuola di massa ma non nel senso ideologico voluto dalla generazione che ha innescato la battaglia.
Lo spiega bene Paola Mastrocola: «Tutti vogliamo che l’istruzione raggiunga il maggior numero di persone possibile, anzi, la totalità degli esseri umani. Ma attenzione ad aiutare davvero la massa, cioè coloro che, svantaggiati socialmente, trarrebbero gran beneficio proprio da un’istruzione di alto livello; attenzione a non aiutare invece proprio le classi medio-alte che hanno, di loro, ben altre risorse rispetto alla scuola, e che cioè troveranno comunque un’ottima sistemazione professionale, non grazie a un ottimo livello d’istruzione ma grazie alle relazioni familiari, al denaro, alle conoscenze della famiglia d’origine. La massa chiede una scuola che gli dia un grado alto, e non basso, di conoscenza, perché solo così potrebbero competere con i figli del ceto medio-alto che vanno a studiare all’estero e poi troveranno lavoro nell’azienda di papà o degli amici di papà.
Dunque, questa scuola facile facile, che aiuta e assiste, finisce per favorire i già favoritissimi nuovi figli di papà, quelli che hanno vestiti firmati, motorini, cellulari, vivono attaccati alla Play-station e si fanno ogni anno un mese in Irlanda per l’inglese. È a loro che rendiamo la vita sempre più facile! Stiamo sbagliando battaglia. Stiamo dando l’opportunità alle classi medio-alte di fare una scuola facile, mentre sarebbe il momento di dare l’opportunità alle classi medio-basse di fare una scuola difficile.
Insomma, siamo sicuri che l’abbassamento del livello sia il mezzo più idoneo per attuare una scuola di massa? Siamo sicuri che, così facendo, non priviamo proprio la massa di quell’unico strumento – quello culturale – che le consentirebbe un miglioramento sociale e professionale? Una volta che abbiamo reso facile la scuola e creato tutti i possibili canali per non fermare mai nessuno, in che stato li mandiamo all’università e poi nel mondo del lavoro?
A un certo punto verrà loro richiesto di dimostrare che cosa sanno fare e non credo che le porte dello studio o della professione verranno aperte a gente che non conosce neanche l’uso della propria lingua! Per non volere una cultura elitaria, abbiamo prodotto una non-cultura di massa. Perché non progettare una scuola alta per tutti, dove tornino la difficoltà, lo studio, la concentrazione, la serietà; e prevedere, per chi ne ha bisogno, delle borse di studio assegnate unicamente in base al merito?» (La scuola raccontata al mio cane, Guanda editore, 2004).
Questa era la scuola degli anni ’90 e del primo decennio del 2000. Poi è arrivata la Riforma Gelmini e, con essa, la scuola è diventata “delle tre i”: impresa, informatica, inglese. La scuola di oggi è ridotta a un’azienda che produce – o vorrebbe produrre – competenze efficienti adeguate al proprio sistema di relazioni internazionali. Definita “scuola neoliberale”, essa esalta l’acquisizione delle competenze e il primato del fare, sopprimendo il tempo morto, la pausa, la deviazione, lo sbandamento, la crisi, il fallimento; tutte quelle esperienze personalissime che costituiscono il fulcro di ogni autentico processo di formazione.
Se nelle battaglie sessantottine il problema era il conflitto generazionale e tra classi sociali, quello di oggi è tutto incentrato sull’affermazione cinica di se stessi. Ma non si tratta più della scuola facile facile, che aiuta e assiste – e uniforma livellando le differenze – di cui ci ha parlato Paola Mastrocola, si tratta piuttosto della completa rottura del patto generazionale tra genitori e insegnanti. I genitori di oggi si alleano con i figli contro gli insegnanti, che restano completamente soli a rappresentare quel che resta dell’educazione scolastica, spesso a supplire alla funzione educativa della famiglia. Gli insegnanti di oggi si sentono spesso in dovere di fare da genitori ai propri allievi, mentre quelli veri corrono a farsi fare lo stesso tatuaggio del figlio o a comprare i biglietti per lo stesso concerto a cui parteciperà il proprio pargolo o a fare la fila per il nuovo iPhone.
I genitori di oggi si alleano con i figli contro gli insegnanti per abbattere tutti quegli ostacoli che mettono alla prova i ragazzi, e lo fanno per garantire loro un successo nella vita senza traumi. Quindi niente brutti voti, niente note sul diario, niente rimproveri, anche perché i genitori intentano cause legali contro gli insegnanti che si permettono di traumatizzare così i loro figli.
La formazione scolastica è ridotta al potenziamento del principio di prestazione che deve preparare i bambini e i ragazzi alla gara implacabile della vita. Il fallimento non è tollerato, come non è tollerato il pensiero critico. Questa tendenza a far diventare il bambino o il ragazzo il centro di se stesso lo induce a non crearsi una rete di relazioni sociali e quindi a rafforzare un rapporto di simbiosi con l’oggetto tecnologico e con la connessione perpetua alla rete.
Il disagio dei nostri figli non scaturisce più dalle differenze e dall’antagonismo con le generazioni dei genitori, ma dalla confusione che deriva dalla perdita delle differenze con queste generazioni: è giusto che i nostri figli vedano le foto di noi ubriachi sulla nostra bacheca Facebook o che ci vedano ripresi in un video mentre cantiamo a squarciagola al concerto magari del loro cantante preferito con una canna in mano?
Lo scenario è apocalittico: la cultura individualistica sta abituando i nostri bambini e ragazzi a non avere rispetto e a non riconoscere la dignità altrui. Immersi come siamo in una società muscolare e competitiva gli adolescenti si convincono che l’avventura della vita equivalga all’affermazione di sé, e che l’affermazione di sé possa avvenire anche attraverso la violenza: sugli altri ma anche su se stessi. Il corpo iperattivo, il corpo sbandato, il corpo obeso, il corpo anoressico, il corpo bulimico, il corpo assassino, il corpo depresso, il corpo intossicato, il corpo distratto nascono tutti da questo: da una rabbia indicibile nei confronti della vita – dei genitori? degli insegnanti? degli adulti di riferimento? – e soprattutto nei confronti di un futuro che non c’è.
Mariangela Campo
Oltre alla mia esperienza diretta e a quella dei miei figli di 10 e 8 anni (V e III elementare), i testi di riferimento dell’articolo sono: Massimo Recalcati, L’ora di lezione. Per un’erotica dell’insegnamento, Einaudi Super ET; Maurizio Parodi, Gli adulti sono bambini andati a male. Per genitori, educatori e insegnanti che vogliono imparare a non insegnare, editore Sonda; Paola Matricola, La scuola raccontata al mio cane, Guanda editore; Maria Montessori, Educare alla libertà