La Consulta e il referendum: il destino delle firme

Antonio Di Pietro

Antonio Di Pietro

Roma-  “1.210.466 firme buttate nel cestino”. Così titola il Fatto Quotidiano in riferimento alla bocciatura dei quesiti referendari da parte della Consulta. La frase, chiaramente ad effetto, fa pensare a quella denuncia che è diventata ormai una triste verità: la sfiducia nei nostri rappresentanti.

Alla sentenza d’inammissibilità pronunciata dalla Corte Costituzionale sono seguite reazioni dure, com’era lecito aspettarsi. Tra lo scontento dell’opinione pubblica, si è detto che quello di ieri è stato un giorno triste, o una festa, la “festa nazionale della porcata” (Beppe Giulietti). Si è parlato di sentenza politica per favorire Napolitano, Monti e la maggioranza che lo sostiene; così come si è parlato di ferita alla sovranità popolare, di “volgarità che rischia di far tornare al regime” e che manca solo l’olio di ricino per sotterrare definitivamente la nostra democrazia. Di Pietro è stato certo volgare (lui si) e violento, e anzi attaccando così le alte cariche dello Stato ha riproposto quel clima di conflitto istituzionale che speravamo esserci lasciati alle spalle. Ma è innegabile che lo scontento generale è forte e ampiamente comprensibile.

Siamo abbattuti, oggi, perché eravamo convinti che il referendum sarebbe stato un eccezionale stimolo perché il Parlamento modificasse la legge elettorale e ora temiamo invece che nulla alla fine cambierà.

La sfiducia verso i nostri rappresentanti è così alta che ormai si è convinti che solo se costretti, solo se la forma lo impone i nostri politici cambieranno questa politica; non quando è necessario (cosa che dovrebbe essere la normalità), ma quando non c’è più alternativa: questo è ormai quello che si pensa di loro. Per questo oggi siamo tristi, arrabbiati e preoccupati. Ma è pericoloso, in democrazia, confondere gli umori con le regole.

Ascoltare l’opinione pubblica per progettare politiche il più vicino possibili alle esigenze e alle aspettative della popolazione è alla base di qualsiasi sistema democratico. Per questo è stato importante il lavoro dei referendari l’estate scorsa, anche se, ad onor del vero, va fatta una precisazione: la consultazione popolare fu in quel caso tristemente ridotta a semplice mezzo, un espediente come un altro per superare l’empasse creatosi in Parlamento (sede appropriata per questo genere di tematiche). Il referendum è una conquista democratica, ma a volte è il miglior paravento dietro cui la politica nasconde la sua incapacità a legiferare.

Comunque sia, Di Pietro e compagni fecero un gran lavoro: essi cercarono di dare voce e rilevanza politica ad un sentire comune. Le firme sono state tante, se si pensa inoltre ai tempi ristretti in cui sono state raccolte. Ma era ovvio che quel milione e 200 mila di nomi non poteva diventare il criterio di giudizio da seguire per un’Istituzione, la Corte Costituzionale, che decide sulla base di altri principi.

La Camera dei Deputati

La Camera dei Deputati

Tuttavia, l’equivoco è nato lo stesso: esso si è manifestato nel pretendere  che la voce del popolo, in virtù di quella sua forza ed insistenza, prevalesse sulle regole e i principi della giurisprudenza.

Per questo, logicamente, la decisione della Consulta è stata vista come una sorta di sopruso, di furto al cittadino del suo diritto di partecipazione alla vita politica.

Ma la Corte Costituzionale, per molti delusi rea di aver ceduto alle pressioni dei partiti, non ha rubato niente a nessuno: ha semplicemente deciso sulla base di ragioni, discutibili o meno, ma che sono di carattere essenzialmente giuridico. È questo che fa di noi uno Stato di diritto, tale perché si muove seguendo la legge, e non le piazze; perché decide sulla base delle regole, e non degli umori.

Se c’è qualcuno invece che potrà derubare il cittadino, questa sarà la nostra classe politica; perché sono i nostri politici, ancor prima di tutti, coloro che devono farsi carico e rispondere al sentimento popolare. Il Parlamento è il luogo dove tale sentimento, attraverso l’attività dei rappresentanti, si trasforma in proposta e quindi in legge. È da qui, pertanto, che dovrà ripartire la discussione sulla riforma della legge elettorale.

È qui che si trovano, adesso, quel milione di firme.

La Consulta ha liberato i partiti da una notevole pressione, ma non per questo essi possono pensare di derubricare la questione a fatto di ordinaria amministrazione. La riforma del sistema elettorale rappresenta oggi un’esigenza di importanza straordinaria, spinta da quell’interminabile lista di nomi che pesano come un macigno, che non sono un semplice stimolo, ma un imperativo categorico, forse l’ultima spiaggia per una classe politica allo sbando e senza più credibilità.

Fa paura dirlo, ma è così: se quel cestino si riempirà o rimarrà vuoto, dipende solo da loro.

Tommaso Tavormina

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