
“L’amore dura tre anni”: niente numeri né calcoli, si parla d’amore
Marc, scrittore con doppio lavoro, critico letterario di giorno e giornalista mondano di notte, divorzia da Anne dopo tre anni per un sms di troppo. La moglie si fidanza con uno scrittore di successo e il povero Marc, proprio quando, disperato, si convince che l’amore non possa che durare al massimo per tre anni, proprio come il titolo recita, si innamora di Alice, bellissima e stimolante moglie del di lui cugino incontrata al funerale della povera nonna. Lui la corteggia disperatamente ma lei resiste. Nel frattempo ottiene il successo con un pamphlet intitolato L’Amore dura tre anni, che agli occhi di Alice risulta vuoto, immaturo. Ma alla cerimonia di un noto premio letterario la nostra protagonista scoprirà l’identità dell’autore, disprezzandolo e spezzandogli il cuore. E’ a questo punto che il cinismo di Marc sarà sconfitto e rivoluzionato da una coscienza amorosa in lui totalmente risvegliata, che lo porterà a riconquistare l’amata solo all’ultimo, alla scadenza dei tre fatidici anni, nonostante anche i suoi amici, il playboy senza freni Jean-Georges e l’originale quanto stramba coppia composta dall’intellettuale Pierre e dalla svampita Kathy, gli avessero dato precedentemente prova che è possibile trovare una stabilità sentimentale, molto più duratura del periodo calcolato dal protagonista.
Tanta voglia di stupire ma con poca efficacia. L’esordio alla regia di Frédéric Beigbeder, autore anche del romanzo dal quale il film è tratto e famoso scrittore-provocatore in patria, punta in alto con la sua prima opera cinematografica, parlando di amore ai giorni nostri citando niente di meno che Shakespeare e Bukowski; scelta dubbia, considerando il grande successo del suo romanzo in Francia arrivato proprio grazie a uno stile tutt’altro che alto e falsamente anticonformista e grazie al tam tam mediatico via web e tv.
La storia è fortemente autobiografica ed è lo stesso regista a rivelarlo in un’intervista: «L’ho scritto in un periodo di malinconia e di pessimismo, dopo il mio divorzio. Sulla copertina c’è scritto romanzo, ma in realtà si tratta di un diario privato. Ho scelto di non essere del tutto fedele al mio libro ma anzi di correggerlo e di svilupparlo. E qui è sorta la questione: sono cambiato dall’uscita del libro, che risale a quindici anni fa? Ebbene no, non sono mai riuscito a superare la fatidica mannaia dei tre anni. O forse solo un po’. È una vera maledizione!».
La storia, di per sé semplice e lineare, cattura nella parte iniziale, perdendosi dopo una quarantina di minuti. La convenzione caustica, autonoma ma delicata, modaiola e anche un po’ retorica usata dal regista, dà ai personaggi e a alle loro vicende amorose, ai loro lascia-e-prendi, una dimensione mediamente noiosa, soporifera come la nebbiolina che Bukowski paragona all’amore e citata come detto nel film. Gli aspetti positivi ci sono ed è giusto sottolinearli, come una fotografia valida, presente e originale, un montaggio capace in alcuni brevi momenti di dare rapidità all’azione o l’interpretazione brillante e credibile dei due protagonisti, Gaspard Proust e Louise Borgoin di cui sicuramente sentiremo parlare in futuro.
Ma il film, nonostante questo, cercando di non perdere lo stile della commedia francese classica e ammiccando alle produzioni americane di ultima uscita, si pensi ad Amici di letto, non convince del tutto e, a parte qualche battuta ad effetto spassosa, non risulta un’opera entusiasmante per originalità e autenticità, pur mantenendo in alcuni episodi una vivacità stralunata e ammiccante.
Gian Piero Bruno
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