Israele a 180°

Roma – Lo scenario internazionale continua a presentarsi quanto mai delicato e poco rassicurante. A farla da padrona rimane la crisi economica e le sue ripercussioni, tralasciando a lato i risvolti geopolitici spesso ignorati. Non sono mancati elementi di novità, eppure risultano ancora assenti all’appello soluzioni che possano essere credibili e definitive per il lasciarsi alle spalle problemi di lunga durata.

Tra questi ancora una volta compare il Medio Oriente, i cui attori sono molteplici. L’Iran e la sua “guerra” per il nucleare continuano a essere presenti sulle agende dei meeting internazionali. In merito, le posizioni degli attori internazionali sono ben esplicite, eppure troppo spesso  queste vengono descritte come immobili, senza dare voce alle divergenti opinioni che spesso si esplicitano sotto forma di cronaca.

Il premio Nobel per la letteratura Gunter Grass

È interessante per esempio citare il caso di Günter Grass. Lo scrittore e premio Nobel per la letteratura tedesco catapultato sulla ribalta dalle cronache per aver pubblicato la poesia Ciò che va detto, accusando Israele di voler colpire l’Iran con un’arma atomica. Grass ha esplicitamente accusato Tel Aviv di minacciare la pace globale in quanto crescente potenza nucleare non firmataria del Trattato di non proliferazione nucleare. Non sono mancate, però, le accuse alla Germania stessa per la fornitura di mezzi militari, e non solo – non dimentichiamo che è al primo posto come partner commerciale europeo di Israele – che renderebbero Berlino complice di un crimine verso il popolo iraniano. Un crimine che il letterato non esita a definire prevedibile sulla base degli attacchi preventivi ben noti alla storia di Israele (Iraq 1981, Siria 2007). Una dichiarazione così forte a cui non sono mancate pronte e indignate reazioni, tanto che il ministro degli Interni israeliano Eli Yishai ha infatti dichiarato lo scrittore “persona non grata”. E questo è solo il caso più noto di una lunga lista.

Meridiani e Paralleli cerca quindi di offrire un focus sull’altro player della regione mediorientale chiamato in causa dalla recente cronaca: Israele. I punti nodali sono come al solito due: Iran e Palestina. Ma cos’è successo di nuovo?

Il Capo di Stato Maggiore israeliano Benny Gantz

Iran. Il Capo di Stato Maggiore di Israele, Benny Gantz, si è detto convinto, nel corso di un’intervista al quotidiano progressista Haaretz, dell’impossibilità per l’Iran di procedere sulla via dell’armamento nucleare a causa delle sanzioni diplomatiche ed economiche imposte al Paese dalla Comunità internazionale.

Sicuro della consapevolezza iraniana delle conseguenze negative che tale scelta potrebbe avere, si è infatti dichiarato fiducioso della razionalità delle scelte dell’establishment religioso, Ayatollah Khamenei in primis. Pur non negando la minaccia esistenziale rivolta al proprio Paese, Gantz ha sottolineato la necessità di voltare pagina: o l’Iran dichiara espressamente di rivolgere le proprie attenzioni esclusivamente al nucleare civile o la Comunità internazionale e Israele dovranno prendere delle misure, dalle quali non si escludono le opzioni militari come ultima ratio.

A sostegno delle proprie affermazioni, il Capo di Stato Maggiore israeliano ha citato le percentuali di arricchimento dell’uranio operate dall’Iran che si attestano su una soglia inferiore al 20 percento – adatto quindi a scopi civili, anche se normalmente nelle centrali il tasso di arricchimento oscilla tra il 3 e il 5 percento – mentre quello destinato a opzioni militari dovrebbe essere arricchito all’85 percento. Tali affermazioni hanno trovato anche il sostegno del Capo di Stato Maggiore americano M.E. Dempsey, che ha avuto modo di mettere in luce una posizione molto vicina a quello del suo omologo israeliano nel corso di alcuni incontri ufficiali.

Ex direttore dello Shin bet, Yuval Diskin

Posizioni confermate anche dal precedente capo dell’Agenzia per la sicurezza nterna (Shin bet) israeliana, Yuval Diskin, che ha dichiarato pubblicamente di non avere fede in una classe dirigente che prende le proprie decisioni sulla base di considerazioni messianiche. L’ex direttore ha accusato, inoltre, Tel Aviv di disinformazione verso l’opinione pubblica sulla fattibilità di un intervento militare aereo in Iran, ritenendo l’ipotetico attacco non una soluzione, ma una sicura causa di accelerazione del programma di arricchimento dell’uranio iraniano.

Il commento segue l’intervista a Gantz, che ha dimostrato un approccio più moderato di quello finora espresso dal Primo Ministro Netanyahu e dal Ministro della Difesa Ehud Barak. Sono perciò evidenti le distanze tra i servizi di intelligence e il governo israeliano – il quotidiano Haaretz parla addirittura di posizione solitaria del Primo ministro - tanto che completamente divergenti sono le dichiarazioni che ne seguono. Se Gantz, come detto, si è mostrato sicuro della razionalità delle scelte operabili da Teheran sconfessando di fatto le scelte dell’esecutivo, Netanyahu non si stanca di dichiarare nel corso dei suoi interventi pubblici l’impossibilità di «scommettere sulla sicurezza globale basandosi su un comportamento razionale dell’Iran».

Il Premier israeliano infatti nel corso di un’intervista alla Cnn è tornato a lanciare un grido di allarme contro il programma nucleare iraniano, ritenendo insufficienti le sanzioni finora imposte dalla Comunità internazionale, evocando il rischio di una catastrofe, e continuando a bacchettare le democrazie occidentali, tra cui gli Stati Uniti, per la loro eccessiva prudenza.

Allo stesso tempo,però, Netanyahu, probabilmente spinto da considerazioni volte a ridimensionare la eventuale

Il Primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu

debolezza politica interna,  si è dichiarato disponibile ad un accordo con l’Iran, sulla base però di tre condizioni: fermare le attività di arricchimento dell’uranio; eliminare il materiale già arricchito; smantellare i bunker dove si lavora al nucleare. La semplice domanda è: stabilito il diritto di qualsiasi Paese all’uso del nucleare civile, si tratta di condizioni accettabili  che consentano una reale posizione di apertura verso le esigenze energetiche di Teheran? Sempre che di sole esigenze energetiche si tratti.

La questione palestinese. Il Presidente in carica dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (noto anche con la kunya Abu Mazen) ha scritto una lettera ufficiale al premier Netanyahu. Nelle intenzioni di Abu Mazen la missiva espone il punto di vista palestinese del perché Israele sia riuscita a rendere irrilevante politicamente l’Ano. Ricordiamo che questa è nata nel 1994 sulla base degli accordi di Oslo e, seppur da sempre indicata come l’apripista del futuro Stato palestinese, a più di vent’anni di distanza pochissimi sono i risultati portati a casa.

Il Presidente dell’Anp, dichiarandosi convinto dell’impossibilità di prorogare lo status quo, ha richiesto ufficialmente dei chiarimenti per la ripartenza di negoziati ufficiali su almeno quattro punti: riconoscimento dei confini del 1967; sospensione delle colonie (già considerate illegali dal diritto internazionale); liberazione dei prigionieri politici; annullamento dei provvedimenti che di fatto hanno svuotato il peso politico dell’ANP.

Lo Stato di Israele dopo il 1967

Per le cronache odierne uno dei punti di maggior attrito è proprio la questione degli insediamenti coloniali. Già motivo di interruzione dei negoziati del 2010, questi (e solo in alcuni casi) sono stati sospesi solo temporaneamente da Netanyahu, a dispetto delle pressioni della Comunità internazionale. Si ripropongono  così i casi del quartiere di Ulpana (dell’insediamento di Beth El), di Migron e di una casa a Hebron. Per Ulpana, in particolare, si tratta del secondo tentativo di salvare un quartiere ritenuto illegale, perché nato su proprietà privata palestinese, dall’Alta Corte Israeliana. Netanyahu ha già annunciato di voler richiedere una proroga alla demolizione e il caso si sta configurando come di grande importanza, proprio per una possibile crisi istituzionale che potrebbe verificarsi qualora il governo decida di sottrarsi alla decisione della Corte.

Lo sgombero dei coloni avrebbe pertanto incredibili ripercussioni interne, a partire dalla minaccia di alcuni ministri di lasciare l’esecutivo qualora venisse rispettata la decisione e dalle proteste del fronte nazionale religioso. A indicare la strada per una possibile soluzione – seppure sicuramente condannabile dal diritto internazionale –  è la legalizzazione retroattiva avvenuta da parte del governo israeliano delle tre colonie di Rehalim, Sansana e Bruhin. Tale situazione non si verificava dall’inizio degli anni ’90 e si pone come ulteriore elemento di tensione con l’Anp. Per chiarire: la legge israeliana fa distinzione tra insediamenti e insediamenti “outpost”: i primi sono ritenuti legittimi sulla base del piano di sviluppo urbanistico, i secondi no. Per il diritto internazionale, invece, entrambi sono illegali.

Anche la liberazione dei detenuti non è un problema di poco conto. È iniziato, infatti, lo sciopero della fame da parte dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane. Motivo della protesta? Le condizioni in cui versano. Fin’ora il numero degli scioperanti si attesta sulle 2 mila unità. È stata anche già denunciata una campagna di rappresaglie nei confronti dei detenuti in sciopero della fame, alcuni dei quali si sono visti trasferiti, altri messi in cella di isolamento o privati del diritto di incontrare i propri avvocati. E, come volevasi dimostrare, non mancano le prime ripercussioni: se da un lato Israele si è dichiarata indisponibile a passi in avanti nei confronti dei detenuti, dall’altro non sono mancati leader islamici che incoraggiavano i palestinesi a rapire i soldati israeliani, come una via possibile per la liberazione dei propri connazionali.

Il premier Mario Monti e il presidente della Anp Abu Mazen

Il numero dei detenuti palestinesi nelle carceri israeliane sembra si attesti ufficialmente sui 4700, di cui 320 sono in stato di fermo sulla base della “detenzione amministrativa” (leggi senza giudizio e condanna). Proprio questa ultimo dato è motivo di tensioni per Israele con le organizzazioni internazionali umanitarie e con la stessa Unione europea.

Ma qual è la posizione di quest’ultima? Semplice: due Stati sulla base dei confini del 1967.  Una posizione completamente abbracciata dall’Italia e dal premier Monti il quale, nel corso di visite ufficiali, ha dichiarato la summenzionata soluzione come unica via alla pace, smarcandosi cosi da quell’appoggio incondizionato alle richieste israeliane dei precedenti governi Berlusconi.

Problemi lontani che di fatto influenzano anche le nostre scelte. Una nota di cinismo: non vorremmo, infatti, che le uniche soluzioni innovative del governo tecnico italiano si riversino esclusivamente sulla politica estera.

Plinio Limata

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