
I Nobraino e il “disco d’oro” da dedicare al genere umano
Domanda: è possibile scrivere, registrare e riproporre dal vivo, al giorno d’oggi, canzoni d’autore contemporaneamente al desiderio di non abbandonare quei pochi ma determinati elementi rock che si conservano gelosamente all’interno del proprio patrimonio genetico? La risposta sembrerebbe risultare affermativa, se solo ci si soffermasse ad osservare e analizzare esempi talvolta anche relativamente estremi (Teatro Degli Orrori?). È molto probabile che, però, la positività di tale giudizio abbia luogo anche laddove la mano è meno dura su arrangiamenti e metodiche di comunicazione da impatto frontale. Anzi. Talvolta è possibile miscelare una certa crudeltà (soprattutto mimeticamente verbale) e delicatezza (sonora) per tentare di raggiungere quasi i medesimi obiettivi.
Lo dimostrano bene i ritrovati Nobraino grazie al loro ultimo lavoro in studio Disco d’oro. Come facilmente si deduce, l’ironia la fa da padrona a partire già dalla scelta del titolo, caratteristica che da sempre contraddistingue la band romagnola (si veda, più che altro, anche la beffarda nomenclatura dell’album d’esordio come se si trattasse di una infallibile e pronosticabile longevità: The best of Nobraino, vincitore, nel 2006, del premio Imaie come miglior album d’esordio. Eccesso di zelo ironico o tentativo di esorcismo da “autosfiga”?), incentivata anche da una certa importante indipendenza discografica che ben redime dai peccati da merchandising (MarteLabel) e, di conseguenza, apre le porte ad un certo libero arbitrio artistico.
Quarta fatica discografica, dunque, Disco d’oro continua a fare di Lorenzo Kruger e soci uno dei più interessanti esempi di folk-rock nostrano apparentemente limitato in scelte sonore per rendersi, invece, assolutamente predisposto a giri di boa e cambi di rotta, come in tanti sanno, soprattutto in adrenalinica sede live. Il dilemma di fondo, però, riguarda un costante mantenersi a metà via tra quel cantautorato di impostazione tardo “deandreiana” adeguatamente beffeggiato, però, da testi e concetti che farebbero aggrottare le sopracciglia (forzando la mano ideologica) al lato meno complesso di un certo Frank Zappa (non ci si dovrebbe spaventare di tirar fuori nomi così imponenti, visto che, se vogliamo, anche la scelta grafica di copertina, a tratti, prende per i fondelli le varie concezioni di album “colorati”, che siano essi “white”, “black” o “brown”).
Proprio questa concezione beffarda dell’esistenza non solo artistica viene fuori, dunque, fin dai primi versi di Tradimento, semplice ma, in altri tempi, censurabile melodia incentrata sul tema (come dire) del “concepimento istantaneo”, in questo caso sia tematico che (volendo) compositivo, visto il continuo fare irruzione di strumenti storico-popolari come violino e fisarmonica su chitarre mai definitivamente affrancabili da distorsioni non solide ma di importante contorno di omogeneità. Si tratta anche di una sorta di preannuncio (e, quindi, anche di conferma verso la nostra sopra accennata semi-classificazione stilistica) di una non dichiarata Spoon river quasi all’inverso, dove cioè, pregi ma, soprattutto, difetti di un’umanità alla deriva emergono nel più lacerante dei modi (vale a dire quello sfacciatamente ridicolo). É il caso, ad esempio, della blasfemia ideologica di Record del mondo o la dissacrante vena (dis)affettiva di Cani e porci che sfocia inesorabilmente nelle implicite ma realmente esistenti invettive tipiche dell’animo di qualunque essere umano possibilitato a relazionare su situazioni vacanziere poco consone al comune senso del pudore (l’ululato affettivo, più che canto, verso le storie d’amore effimere tra bagnini e turiste tedesche di Bademeister).
Non smettono di forzare la mano (sempre docilmente) dissacrante anche brani come, su tutti, Il mio vicino, contorta composizione incentrata su meschinità quotidiane sfogate col pensiero e, qualche volta, anche con le azioni («Il mio vicino è uno sporco usuraio, m’ha parcheggiato sul passo carraio. Io sono sceso con un batticarne: gli ho fatto fuori le frecce, a quel verme»), o come il surrealismo (anche se, in realtà, mai tanto legato al reale stato delle cose) dell’ipotetico discorso di chiamata alle armi di Il mangiabandiere («Chi paga gli aerei per legger la storia, finiti i soldi vi pagherà in gloria») misto ai fraseggi puramente universali del primo singolo radiofonico estratto dall’album, ovvero la delicatissima Film muto.
In definitiva, è un’intera nazione (se non proprio un universo di storie e tipi umani) allo sbando morale, concettuale ed ideologico quella che viene fuori dalle viscere di un album delicato e preciso tra le righe e gli spazi di un pentagramma ma pungente, sadico e, a momenti, davvero spietato nel delineare la sua personalissima immagine di società tutt’altro che civile annidata sotto le maschere di un falso perbenismo che, da diversi decenni, attanaglia il concetto stesso di identità collettiva.
Stefano Gallone