‘Friendless’ e gli esperimenti strumentali degli Zeffjack

Esce "Friendless", primo long playing degli Zeffjack, ed è subito fascino per un'impostazione da power trio orientata verso campi rock di matrice sperimentale

La copertina di "Friendless", l'album d'esordio degli Zeffjack

La copertina di “Friendless”, l’album d’esordio degli Zeffjack

Esprimere il proprio stato d’animo e, in fin dei conti, la propria storia e il proprio ruolo nel mondo senza dire una parola. È questo il grande merito che va riconosciuto a molti artisti di varia provenienza e derivazione come anche ai nostrani Zeffjack (fulmineamente noti come Fra, Mic e Andre), nordici sperimentazioni del suono convenzionale sfuggiti alla paranoia dei testi significanti per approdare sulle salvifiche sponde della strumentalità più emotiva ed efficace a livello sonico.

Il loro esordio sulla lunga durata, Friendless (Rocketman Records), arriva dopo due ep (La cura del freddo e La stagione delle piogge) e un singolo (Dimentica) a scandire i ritmi e le dinamiche forsennate di un suono che parte dal rock per intraprendere viaggi eterogenei ma ricchi di spunti creativi ed emozionali.

Gli Zeffjack

Gli Zeffjack

IL CONCETTO DI POWER TRIO, in casa Zeffjack, viene inteso alla stregua di un sano e corposo tentativo di fare le valigie e partire per direzioni non prestabilite, ora con lo sguardo verso un rock alternativo underground statunitense (il cui verbo, qui da noi, fu divulgato da eminenze come Marlene Kuntz, One Dimensional Man e Afterhours degli esordi targati seconda metà ’80), ora invece rivolte ad escursioni punk e, soprattutto, new wave di matrice britannica e dalle gradazioni tonali decisamente tetre e oscure.

Non c’è strumento né personalità prevalente nel suono proposto dall’attuale identità assunta dal progetto Zeffjack in un album come Friendless. Le ritmiche sorreggono caparbiamente una corporazione espressiva altrimenti scevra di sovraffollamento percettivo, le quattro corde non ricadono mai nel consueto utilizzo sostenitore quando non proprio accompagnatore, mentre i fraseggi chitarristici riescono notevolmente nell’intento di colmare l’assenza vocale offrendo molto di più in termini di elaborata e avvolgente densità sonora. Il tutto concorre a strutturare con chiarezza, precisione, cura e attenzione al dettaglio ogni singolo frangente di un album spigoloso, tutt’altro che accomodante e rassicurante malgrado molteplici presenze solari che, più che a mantenere in equilibrio le sensazioni provenienti dall’ascolto meno riflessivo, servono a rendere – se possibile – ancora più scontroso e potente l’impatto con le terminali intenzioni buie e tempestose.

Gli Zeffjack

Gli Zeffjack

NESSUN ACCOMODAMENTO, NESSUNA RASSICURAZIONE, per l’appunto. Sono concetti che rientrano nelle intenzioni basilari del trio nostrano che, così operando, riversa in suoni tutti i suoi frastuoni interiori e dolori anche fisici di un trascorso esistenziale incerto, uggioso, carico di insoddisfazione e rischiosa arrendevolezza nei confronti di tempo e spirito di volontà. Trovando dimora tra le importanti mura della Rocketman Records, dunque, il progetto Zeffjack ha potuto mettere radici per lasciar germogliare i frutti di stati d’animo, luoghi mentali e sfoghi sonori azzerando tutto e ripartendo dalla libera improvvisazione esorcizzante (prima) e risolutiva (poi). Ne deriva un lavoro estremamente compatto e straripante di idee magari non nuovissime ma da seguire doverosamente se ci si vuole aggrappare a una soluzione concreta che vada contro la consueta stereotipizzazione delle idee e dei sentimenti.

IL DISCO – È proprio questo ciò che sembrano suggerire le aperture alla Placebo di Mont blanc, St. Antony’s fire e Number nine, così ricche di fosforo elettrico da rendere continuativi i risvolti noise in stile Sonic Youth e Unwound riservati ad Arnold press e conservati nel subconscio del post punk puro di Poretti party e Deep impact (la memoria, qui, va un po’ ai, Fugazi, forse anche ad alcuni spunti alla Dinosaur Jr ma solo a tratti). Le dichiarate influenze Block Party ed Electric Six emergono in punti cardinali racchiusi in Starting light e nella conclusiva Fade out, ma è una dark wave nord-europea (sia originaria alla The Cure che derivativa e sperimentale alla Mogwai) a dominare il campo nei momenti topici affidati alle mani di vere e proprie gemme come Demo cemetery e California butterfly, nelle quali si percepisce sulla pelle tutto il calore di un’incisione processata in analogico a 16 piste.

Senza ombra di dubbio si tratta di un lavoro e di un agglomerato di sicuro interesse emozionale, oltre che sonoro. Pertanto, non si deve fare altro che seguire le orme di una mentalità estremamente aperta e in grado di accogliere spunti per riflessioni sempre rivolte a un qualsivoglia spiraglio di novità. Il primo nuovo passo è stato fatto su un terreno assolutamente fertile e coltivabile.

Voto: 8

 

Stefano Gallone
@SteGallone

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