Festival Internazionale del Film di Roma: Verhoeven e il rinnovamento strutturale

ROMA – E fu così che la sezione Cinemaxxi si rivelò innovativa non solamente per ciò che concerne il concetto stesso di linguaggio cinematografico, bensì anche e soprattutto per quanto riguarda un altro elemento necessario e troppo spesso sottovalutato: il rinnovamento strutturale. Chi se non il geniale maestro Paul Verhoeven, allora, avrebbe potuto dimostrare, ancora una volta (senza nulla da perdere, è vero, ma anche con, a disposizione, un inestinguibile bagaglio di divertimento personale) quel coraggio che ogni produttore e regista, in verità, dovrebbe avere inoculato nel codice genetico fin dalla nascita artistica.

Anche se presentato fuori concorso, il mediometraggio Steekspel solo inizialmente appare fuori luogo nella sezione, per poi lasciare che, al termine dei titoli di coda, in effetti, la spiegazione arrivi (come sempre) dall’ottimo Mario Sesti, seduto proprio accanto al leggendario filmaker nell’incontro seguente alla proiezione: si tratta, dunque, di una produzione sperimentale non nella forma, bensì nelle modalità di creazione. Lo stesso Verhoeven, infatti, catalizzato da consueti aiuti in fase di scrittura, ha deciso di aderire ad un progetto interattivo che ha permesso a centinaia e centinaia di utenti della rete di scrivere storie e psicologie per personaggi creati, organizzati e diretti solo ed esclusivamente per i primi quattro minuti di girato, lasciando così il campo ad una vera e propria devastazione telematica dalla quale regista e autori (figure professionali, a detta dello stesso Verhoeven, sempre e comunque necessarie per un corretto andamento artistico del settore) hanno attinto (naturalmente non senza una certa dose di ansia e terrore da quantità industriali di carta da analizzare) per selezionare, riassemblare e reinventare storie e caratteri allo scopo di dare un senso omogeneo alla narrazione. Risultato? Molto ma molto prossimo al perfetto.

La “frecciatina” rivolta alla figura intoccabile del produttore è fin troppo evidente: osare è la parola d’ordine, pena la stagnazione in territori magari buoni per le tasche ma sempre e comunque ripetitivi e mai veramente stimolanti in senso creativo. Narrativamente parlando, poi, il breve film risulta estremamente godibile a qualsiasi tipo di pubblico: una vera e propria giostra di rapporti (dis)umani ascrivibili al campo di una ricca famiglia e poco più, con tanto di menzogne, sotterfugi affettivo-amministrativi e motivazioni ben al di fuori della comune morale di sorta…o forse troppo assorbiti da una certa interpretazione di modernità per sentirsi in condizione di sorridere beatamente applaudendo senza riserve (frecciatina parallela da parte dell’autore di questo articolo).

In ben altra direzione, invece, naviga, proveniente dall’Australia, P.J.Hogan (già noto per Il matrimonio del mio migliore amico) con la splendida commedia Mental, storia di una ex hippie dai modi burberi ma estremamente efficaci che, di punto in bianco, si ritrova a spalleggiare, inizialmente in qualità di babysitter improvvisata ma poi, gradualmente, consapevole di un sempre crescente senso del dovere nei confronti di quattro sorelle, un padre e una madre troppo immischiati in ciò che è davvero follia, ovvero la finta e ripugnante costanza forzata (e autolesionista) del sentirsi in dovere di mantenere tenori di vita che siano modello per chissà quali dimostrazioni. Toni Collette (meglio ricordata, oltre che per altre situazioni “psychomiche”, anche in ottime performance drammatiche, prima su tutte quella che la vide nelle vesti di madre del piccolo Cole del Sesto senso firmato M.Night Shyamalan), seppur aiutata da una sceneggiatura composta al millimetro, è praticamente perfetta e conferma la sua bravura nell’assorbire un ruolo da donna al contempo forte di fisico ma di gran lunga frammentata d’animo. Ancora una volta nel corso di questa kermesse, comunque, tematicamente il passato ritorna inesorabile a reclamare il proprio duro ma, forse, necessario ruolo.

Stefano Gallone

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