
Effetto Trump: Apple valuta il ritorno in USA?
Nonostante le polemiche e gli attacchi di larga parte della stampa internazionale, la valutazione di Donald Trump va fatta per ciò che porterà avanti realmente quando sarà in carica. Tra i vari punti della sua campagna elettorale c’è stato un protezionismo di ritorno che tanto è piaciuto nella Rust Belt americana e che sta aprendo finalmente un più ampio dibattito sulla globalizzazione. Questo dibattito apre scenari nuovi per le mega multinazionali americane e la Apple inizia a pensare di tornare nel Paese dello Zio Sam.
LE MISURE PROMESSE DAL TYCOON – Cosa ha promesso Trump agli operai ma anche all’impoverita classe media americana? Il neo Presidente ha esposto di voler rinegoziare i trattati di libero commercio come il NAFTA e si è schierato contro il TPP e il TTIP che riguardano rispettivamente il commercio con il Pacifico e l’Unione Europea. Inoltre ha affermato di voler riportare a casa la produzione delle aziende americane dalla Ford alla Apple. Come? Facendo dei radicali tagli fiscali alle imprese dal 35 al 15%, tagliando dal 35% al 10% la tassa sul rientro dei capitali all’estero delle aziende americane e nel frattempo imponendo un dazio del 45% su tutti i prodotti di importazione cinese, cioè in larga parte macchinari per l’industria e prodotti elettronici. Queste tariffe incrementerebbero secondo le stime di Capital Economics di un aumento dei prezzi dei prodotti cinesi del 3% e quindi un aumento dei costi per famiglie ed imprese, compensato però dagli ampi tagli di tasse.
LO STUDIO FOXCONN – L’azienda di Cupertino è dalla nascita all’avanguardia nel proprio settore ma anche nel prevedere le future mosse politiche che potranno influenzare il futuro dell’azienda. Per questo motivo nel politicamente lontano giugno 2016, Apple ha richiesto ai due colossi che assemblano gli iPhone in Cina, Foxconn e Pegatron, di effettuare uno studio sul costo dell’assemblaggio in USA e su quanto costerebbe trasferire la produzione dalla Cina agli USA. Solo Foxconn ha portato avanti lo studio e sembra che produrre un iPhone negli States costerebbe 30 dollari in più a pezzo, secondo quanto riporta il Nikkei Asian Review. Le stime suggeriscono che l’aumento dei costi sarebbe dovuto ai trasporti delle materie prime più che alla produzione in quanto tale, a testimonianza di quanto siano scesi i salari in quella molti ancora considerano la prima potenza economica mondiale.

Da sinistra a destra: Il Primo Ministro giapponese Abe e il prossimo Presidente USA Donald Trump (http://www.agi.it)
LA RIFLESSIONE ECONOMICA, AMBIENTALE E SOCIALE – Al netto dei dubbi sullo studio – il mega braccio cinese non è proprio il più imparziale dei soggetti sulla questione – e al netto del “No comment” di Apple, lo studio e le prossime politiche di Trump pongono una seria riflessione sui trattati commerciali. Dal dopoguerra in poi il commercio è stato considerato come il primo alleato della pace; vi è un’istituzione internazionale, l’OMC, l’Organizzazione mondiale del commercio e perfino l’Unione Europea è partita dall’acciaio e dal carbone. Il sistema impostato nel dopoguerra sta però collassando, grazie alla libertà data al sistema finanziario, e un altro ne sta nascendo mentre i maggiori capi di stato si comportano spesso come l’orchestra del Titanic. La sua crisi è esistenziale perché tocca l’ambiente, la società, l’economia e quindi la politica. In questo contesto i trattati commerciali vanno ripensati in favore del bene comune dei popoli. Al momento, molti di essi sembrano, a detta dei critici, essere costruiti per aiutare quelle multinazionali o corporate che concentrano ricchezza in mano a pochi e spingono i governi ad abbassare i costi del lavoro e i diritti sociali. Questa è la prima causa che provoca l’elezione di un miliardario che promette di lottare per i più deboli come Trump, a dispetto di ogni credibilità che questi abbia. Inoltre i trattati vanno ripensati guardando all’ambiente. Sarebbe utile che istituzioni come l’Organizzazione Mondiale del Commercio si interrogassero su cosa comporta la delocalizzazione in termini di costi ambientali o se i trattati favoriscano davvero una crescita sostenibile.
LE RELAZIONI WASHINGTON-PECHINO – Il discorso politico connesso all’ambiente non è esattamente il primo pensiero di Mr. Trump, che vanta nella sua squadra elettorale negazionisti del cambio climatico. Trump ha un’ottica settoriale e focalizzata sull’economia da uomo di business qual’è. Nonostante ciò, la questioni relative ai trattati commerciali e alla delocalizzazione delle imprese sono sacrosante ma comportano dei rischi. Il più importante è quello di un conflitto con l’altra potenza del mondo, la Cina. Attraverso il Global Times, giornale controllato e diretto dal governo, Pechino ammonisce Washington su una ipotetica guerra commerciale: come sarebbe per la Apple perdere un mercato di 1 miliardo di persone o per i produttori di boeing americani perdere le loro commesse in Cina? Ecco qui entra in gioco la politica e Mr. Trump deve muovere al meglio ogni pedina, visto anche che Pechino non avrà certo gradito che il primo incontro del nuovo Presidente con un Primo Ministro asiatico sia stato con Shinzo Abe.
Domenico Pellitteri