
Ecco perché liberalizzare la cannabis, parla il presidente di FreeWeed
Tutto quello che c'è da sapere sulla legalizzazione della cannabis. L'intervista al presidente di FreeWeed, associazione impegnata nella liberalizzazione
La proposta di legge che legalizza la cannabis è «parcheggiata su un binario morto» da quasi due anni, una situazione «insostenibile in termini istituzionali»: così asserisce Benedetto Della Vedova, coordinatore degli oltre 200 deputati riuniti nel gruppo interparlamentare Cannabis legale. «Il mio appello ai parlamentari che, non legiferando in materia di droghe leggere, regalano vite e miliardi alle mafie». Questo, invece, il tweet indignato di Roberto Saviano. E, a pochi giorni di distanza, giunge anche la lettera del sindaco Leoluca Orlando, inviata ai presidenti di Senato e Camera, Pietro Grasso e Laura Boldrini, con cui si chiede la legalizzazione delle droghe leggere. A riaccendere le riflessioni del mondo della politica, e non solo, su un tema messo a tacere per troppo tempo, è il tragico suicidio di un adolescente, avvenuto a Lavagna, durante una perquisizione antidroga da parte della Guardia di Finanza. Ed è in questo clima di risentimento che Wakeupnews ha voluto informarsi ed informare sul consumo, sulla produzione, sulla commercializzazione, sui pro e contro della cannabis e, soprattutto, su quanto, ancora, essa attiri pregiudizi e ipocrisie. A questo scopo abbiamo ascoltato la voce di Stefano Armanasco, presidente dell’associazione no profit FreeWeed, costituita da attivisti e volontari impegnati nella campagna di liberalizzazione.
Come è nata FreeWeed e qual è la sua politica d’azione?
Freeweed è nata dal web, oramai tre anni e mezzo fa, come associazione di consumatori e di pressione sociale. All’epoca, quando eravamo ancora un piccolo gruppo di utenti che si radunava sul web, era ancora in vigore la legge Fini-Giovanardi – la quale equiparava le droghe pesanti a quelle leggere – per cui, il nostro primo obiettivo fu quello di allestire una manovra informativa sul tema. In un secondo momento, si è sviluppata l’idea di organizzare un referendum per l’abrogazione della normativa, così abbiamo deciso di registrare una vera e propria associazione che potesse gestire e coordinare raccolte firme, azioni popolari e manifestazioni come quella dell’8 febbraio 2014, organizzata in collaborazione con altre forze e realtà operanti sul territorio, quali soprattutto centri sociali. Ecco, questa manifestazione nazionale contro la Fini-Giovanardi, a cui hanno presenziato migliaia di persone, ha certamente contribuito alla bocciatura della legge. Con questo non voglio dire che il merito è stato nostro, la norma in sé presentava già forti incongruenze, ma il coinvolgimento del popolo ha sicuramente aiutato a far aprire gli occhi. Al decadere della Fini-Giovanardi abbiamo spostato l’obbiettivo sulla legalizzazione della cannabis, e più nello specifico sulla possibilità di definire in legge l’autoproduzione e il consumo di cannabis.
Quali sono le motivazioni che vi spingono a battervi per la legalizzazione della cannabis?
Nel corso degli anni ci siamo resi conto che la legge attualmente in vigore, pur concedendo un minimo di consumo personale, nella pratica, non impedisce di essere segnalati o, addirittura, multati. Ed è assurdo che la cannabis, definita scientificamente una sostanza sicura, anche rispetto ad altre sostanze regolamentate come alcool e tabacco, venga ancora mantenuta in questo alone di discriminazione. L’autoproduzione, inoltre, è ancora un reato penale e ciò infrange le libertà personali riportate nei trattati internazionali. Quindi quel che facciamo è batterci per far valere quei diritti che in altri Paesi hanno già valutato e riaffermato da tempo.
Non temete che la legalizzazione possa incentivare il consumo di quella che, seppur leggera, è comunque considerata comunemente una droga, pertanto potenzialmente dannosa?
Studi alla mano, riteniamo che la legalizzazione, in realtà, non aumenterebbe il consumo ma farebbe emergere quello già esistente, quello che attualmente vive nell’ombra dell’illegalità. Per quanto riguarda la dannosità, invece, posso assolutamente affermare che è la dose a fare il veleno, non la sostanza in sé. È l’eccesso a creare il danno, come del resto qualunque altra cosa. La cannabis diventa nociva nel momento in cui si assumono 24mila kg in un’ora. E anche in questo caso, si tratta di cosiddetti danni eventuali, perché possono o non possono verificarsi. Inoltre, c’è da dire che sono effetti del tutto riassorbibili, come ad esempio la paradontite causata dalla combustione.
Quanti sono i consumatori di cannabis in Italia?
Vi sono dati che parlano di 7 milioni e mezzo di consumatori. Chiaramente non si parla di consumatori abituali ma di persone che durante un anno entrano in contatto con la sostanza e che ne fanno un uso saltuario. Di abituali, invece, – dove per abituali si intende un consumatore che ne fa uso almeno tre volte a settimana – siamo sui tre milioni, tre milioni e mezzo.
Quanti di questi ne fanno uso a scopo ricreativo e quanti a scopo terapeutico?
Sicuramente in Italia, esattamente come dimostrano anche i mercati esteri, vi sono per lo più consumatori ludici. E questo è dovuto all’ignoranza in materia, in particolar modo da parte delle fasce di popolazione più giovani. I ragazzi non sanno delle proprietà curative di questa pianta, che per giunta è sempre e comunque valida. Perché, in realtà, secondo quanto rivelato a livello scientifico, l’uso ricreativo non esiste. Tutto ciò che spinge un essere umano verso una sostanza è sempre e comunque una situazione di ricerca di benessere interno. Il sistema endocannabinoide messo in moto dalla cannabis rende l’interazione con la sostanza sempre terapeutica, sempre volta ad un miglioramento personale. Per fare un esempio simpatico, la parola “sballare” che noi attribuiamo agli effetti della cannabis, deriva dal latino e altro non significa che “togliere dall’imballaggio”, far uscire dal proprio guscio. Il che non è così negativo come si pensa.
Con l’approvazione del Decreto Ministeriale del 23 gennaio 2013, la marijuana è stata riconosciuta come farmaco. Ciononostante, la prescrizione medica della marijuana incontra spesso degli ostacoli. Perché?
Pur essendo riconosciuta come farmaco, la prescrizione della cannabis è riservata solo ad alcune patologie, ovvero solo a chi è affetto da patologie invalidanti ad uno stadio avanzato, o a chi ha la possibilità, e la fortuna, di conoscere un medico disposto a prescriverla. Perché nonostante la legge preveda che tutti i medici curanti possano e debbano prescriverla a chi ne ha diritto, nella pratica, molti di loro sono restii a farlo. Purtroppo, anche in quest’ambito persiste ancora tanta disinformazione. In generale si può dire che, per quanto riguarda la cannabis, una copertura completa e gratuita da parte del sevizio sanitario italiano non esiste. Ed anche qualora il soggetto sia disposto a pagarsela – e a che prezzo! – deve dapprima dimostrare di aver tentato invano altre terapie. Allora perché non autoprodursela? Perché non avviare un mercato un po’ più libero come avviene in America. Negli Stati Uniti, infatti, per l’erogazione di cannabis viene rilasciato un patentino da un medico, il quale ha precedentemente accertato l’esistenza di un disturbo – che può essere anche un mal di testa o semplicemente ansia -. Ottenuta l’autorizzazione, il soggetto può recarsi al dispensario per acquistarla ogni qual volta ne ha bisogno, senza passaggi intermedi e, soprattutto, con la possibilità di scegliere tra diverse migliaia di strain di erba. Da noi, invece, si possiedono solo una o due tipologie di cannabis e costano anche di più. Oltre alla spesa, poi, spesso ci si mette anche la beffa. Nonostante la prescrizione medica, infatti, a causa dell’ignoranza e della repressione verso il consumatore, spesso, si rischia comunque una segnalazione. Conosciamo diversi pazienti che, pur essendo autorizzati all’acquisto dallo Stato italiano, hanno ricevuto delle perquisizioni.
Quali sono le malattie, riconosciute in Italia, curabili mediante somministrazione di cannabis?
Tutte le patologie resistenti alle terapie convenzionali che implicano spasticità associata a dolore, quindi: la sclerosi multipla, le lesioni del midollo spinale, gli effetti causati da chemioterapia, radioterapia, terapie per HIV o AIDS, l’anoressia nervosa. Una cosa che non viene ancora calcolata in Italia, e di cui abbiamo diffuso diversi studi medici interessanti, è l’utilizzo dell’olio sia di CBD sia di THC estratto dal fiore, utile per curare l’epilessia anche nei minorenni. Ecco, queste cose in Italia vengono ignorate, seppur esistano applicazioni scientifiche diffuse in tutto il mondo.
Secondo quanto sostenuto dal procuratore antimafia e antiterrorismo Franco Roberti, nonché da Roberto Saviano, legalizzare la produzione e la commercializzazione delle droghe leggere toglierebbe potere economico alle mafie. È d’accordo?
Facendo emergere un mercato legale il prodotto verrebbe sottratto al mercato illecito, di conseguenza, tutta la transazione verrebbe gestita dallo Stato e il denaro incanalato nelle casse pubbliche o di aziende private. Noi saremmo propensi più per la seconda ipotesi, ovvero per un guadagno statale indiretto, tramite la tassazione sul prodotto, esattamente come avviene anche negli Stati Uniti. La legalizzazione, inoltre, porterebbe anche altri vantaggi. Basti pensare che per procurarsi la cannabis, i consumatori sono costretti, quotidianamente, ad entrare in contatto con uno spacciatore, il quale potrebbe potenzialmente essere inserito anche in un mercato di sostanze diverse, decisamente più dannose o, addirittura, appartenente a circoli criminali che nulla hanno a che vedere con la droga. Lasciare che vi sia ancora una vendita illecita significa fornire al consumatore di cannabis la possibilità di interagire ed essere coinvolto in circostanze altamente rischiose. Eliminare la grande repressione sui consumatori e coltivatori di cannabis, al contrario, oltre a garantire maggiore sicurezza, comporterebbe la possibilità di utilizzare le risorse delle forze dell’ordine per perseguire reti più gravi, la possibilità di risparmio o reinvestimento di fondi.
Il progetto di legge, attualmente in fase di stallo alla Camera, apre alla detenzione e alla coltivazione lecita di piccole quantità di cannabis e fornisce, inoltre, la possibilità di costituire i cosiddetti cannabis social club. Cosa sono e come funzionano?
In linea generale, si parla di associazioni di consumatori e coltivatori dello stesso prodotto, a prescindere che si tratti di cannabis o meno. Infatti, esistono sistemi di questo genere anche per altri prodotti, ad esempio frutta e verdura. L’idea è stata tratta dalla Spagna, la quale permette ai soci registrati di coltivare – nel loro caso, la cannabis – e dividersi poi il raccolto in base alle quote decise dal consiglio direttivo di ciascuna associazione. Benché inizialmente si trattasse di circoli rigorosamente chiusi, quindi riservati ai soli soci iscritti, i cannabis social club spagnoli, nel tempo, si sono aperti anche a membri esterni. Quel che noi desideriamo portare in Italia, invece, è proprio il progetto iniziale spagnolo, ovvero un circolo chiuso. Ciò, del resto, coincide con quanto attualmente proposto dal disegno di legge in discussione alla Camera, ovvero un club costituito da massimo 250 membri. Sì, è vero, si tratta di un mercato estremamente chiuso, dunque qualcuno potrebbe pensare che ciò potrebbe contrastare la normale commercializzazione. In realtà, così facendo si porterebbe un grande vantaggio all’economia nazionale. Le nostre ricerche, basate sul confronto con la Spagna, hanno rivelato che dando la possibilità alle persone di associarsi e di coltivare si otterrebbe un netto risparmio sulle spese del cittadino. Spese, queste, che al 90% verrebbero reinvestite in un altro mercato economico produttivo. Se tutte le proposte di legge fin ora hanno puntato a garantire il monopolio dello Stato è proprio per l’errata convinzione di perdere una fetta proficua del mercato, per la paura che la liberalizzazione possa apportare uno svantaggio e non una crescita. Ma l’esempio americano, dove la domanda e l’offerta cresce esponenzialmente, ci ha dimostrato il contrario.
Qual è, secondo lei, il freno principale che impedisce all’Italia di liberalizzare la cannabis?
Avendo creato una associazione informativa contro il proibizionismo crediamo, in primis, che l’ostacolo più grande sia proprio la disinformazione a livello sociale e politico. La verità è che non si è mai data la giusta importanza a questa tematica, si è sempre ritenuto un argomento di seconda categoria. Ma non è così. A dimostrazione della rilevanza di questo tema esistono studi scientifici, statistiche e soprattutto numeri: il numero di consumatori, quello degli arresti e quello della spesa che, quotidianamente, viene sostenuta per acquistare il prodotto. Crediamo pertanto che l’Italia debba iniziare ad aprire gli occhi, e quando parlo dell’Italia parlo di ogni singolo cittadino, il quale dovrebbe iniziare a pretendere riforme, a fare pressione sul sistema politico, a far valere i propri diritti.
Perché, a suo avviso, il cittadino teme di esporsi e prendere posizione su questo tema?
La paura più grande deriva dalla minaccia di spese conseguenti alle ripercussioni legali. Magari c’è chi vorrebbe farsi avanti, far sentire la propria voce, ma non lo fa per non incorrere in eventuali problemi a lavoro, con la patente. È difficile mettersi in gioco completamente quando si ha a che fare con l’argomento cannabis, un tema inserito nell’ambito delle droghe, il quale a sua volta è associato, nella legislazione nazionale e nei trattati internazionali, al terrorismo.
Antonietta Mente
@AntoMente